Dimitar Peshev

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Gabriele Nissim
Washington, 30 marzo 1999



Peshev, l'uomo che fece vergognare una nazione intera


Un sentimento di vergogna può avere la forza di impedire un genocidio e creare all'ultimo momento dei dubbi tra gli stessi complici di un male radicale?
Un rimorso di coscienza può rimanere latente nel loro cuore ed esplodere di fronte ad un gesto individuale o collettivo che li metta clamorosamente di fronte alle proprie responsabilità?
La vicenda di Dimitar Peshev in Bulgaria è da questo punto di vista esemplare.
Il vicepresidente del parlamento bulgaro era un uomo per bene che come tanti altri si fece abbagliare dalla Germania, al punto da rimanere passivo di fronte alle leggi razziali, ma poi, di fronte all'imminente deportazione degli ebrei, non solo si vergognò per la sua complicità, ma riuscì con la sua iniziativa politica a trasformare il proprio stato d'animo nel sentimento di vergogna dell'intero ceto politico bulgaro.
Dimitar Peshev è stato capace di trasformare le stesse persone, che fino al giorno prima non avevano avuto il coraggio di prendere una iniziativa e stavano diventando loro stessi complici della soluzione finale, negli artefici del salvataggio di tutti gli ebrei del suo paese.
Ha trasformato politici importanti che fino a quel momento avevano voltato la testa dall'altra parte e si erano fatti opportunisticamente condizionare dai tedeschi, in uomini con una coscienza e con un pensiero.
Non c'è stato nessun uomo politico di un governo filo-tedesco che abbia usato il suo Potere per far esplodere una crisi morale tra i complici della soluzione finale.
È questa la chiave per capire il meccanismo del salvataggio degli ebrei bulgari ed il ruolo particolare di Dimitar Peshev.

Ma in che modo la vergogna ha potuto determinare positivamente l'evoluzione della vicenda bulgara?
Bisogna prima di tutto evidenziare alcune caratteristiche peculiari della situazione.
  1. A differenza di altri paesi, a Sofia non esisteva una tradizione antisemita,né avevano particolare influenza tra la popolazione gruppi radicali antisemiti. Così quando il gruppo dirigente varò le leggi razziali al momento dell'alleanza con la Germania, non riuscì a trovare il sostegno della popolazione.
  2. L'antisemitismo del gruppo dirigente era prevalentemente di tipo opportunistico, non aveva una matrice ideologica. I nazisti in Germania avevano concepito la persecuzione degli ebrei con la folle utopia che la loro eliminazione avrebbe fatto nascere una società perfetta e felice e che si sarebbe così potuto costruire un meraviglioso prato inglese non più contaminato dalla presenza delle erbacce, come ha osservato il sociologo Sigmund Bauman. Il ceto politico bulgaro, invece, non aveva invece aderito al progetto nazista pensando che gli ebrei fossero i nemici del genere umano, ma per ottenere dai tedeschi principalmente due favori: il recupero della Tracia e della Macedonia e il non coinvolgimento nelle operazioni militari. Gli ebrei erano dunque per i bulgari un'utile merce di scambio per raggiungere i loro obiettivi nazionali. Quando per esempio il deputato Nikolaev, al momento della votazione delle leggi, espresse al ministro degli Esteri Popov la sua perplessità per le decisioni che venivano prese, si sentì rispondere: "Anch'io non sono d'accordo su tante cose, però sopporto, combatto come posso e quando non posso arretro, ma cerco di arrivare alla cosa più importante". "Ma cosa è la cosa più importante?" gli chiese Nikolaev. "Ma come, non lo vedi?" rispose. "Riuscire a rimanere fino alla fine fuori dalla guerra, senza trascurare la possibilità di realizzare le aspirazioni nazionali. Ecco, abbiamo ricevuto la Dobrugia senza spargimento di sangue, presto potremo prendere anche la regione del mar Egeo, sempre senza guerra. Non è questa ' la cosa più importante'?". Era chiaro che gli ebrei erano meno importanti dei territori.
  3. In Bulgaria non si realizzò mai, neppure nei momenti peggiori, la separazione degli ebrei dal resto della popolazione, né di conseguenza quel processo di disumanizzazione delle vittime, che aveva fatto venir meno, ad esempio in Polonia, ogni sentimento di pietà umana versoi perseguitati. Non è un caso se per la maggioranza degli ebrei bulgari la memoria di quel periodo storico è contrassegnata da ricordi di gesti di solidarietà e di altruismo piuttosto che da immagini di prevaricazione e di solitudine.
In questo contesto i dirigenti bulgari, paradossalmente, dovettero fare i conti, giorno dopo giorno, con tre elementi contradditori tra loro, senza riuscire a conciliarli: la necessità di compiacere i tedeschi per la realizzazione del loro sogno nazionale, ma allo stesso tempo la riluttanza della popolazione di fronte alle leggi razziali, e infine la loro stessa scarsa convinzione.
Assunsero quindi un esemplare comportamento di doppiezza morale sia nei confronti del mondo esterno, sia nei confronti di se stessi. Un comportamento tipico di tutti coloro che nella storia dell'umanità diventano complici di un male estremo soltanto per opportunismo, ma che poi non hanno il coraggio di cambiare direzione fino al momento della ribellione della coscienza (ovviamente se e quando questa si manifesta) e dell'esplosione della vergogna.
Così da un lato i dirigenti bulgari si preoccupavano di non apparire agli occhi della popolazione come dei veri antisemiti e cercavano di giustificare le loro iniziative come determinate da uno stato di necessità, di fronte alla difficoltà di praticare una politica anti-ebraica in un paese con una grande tradizione di tolleranza. Infatti, se trovavano un grande consenso popolare nel presentare l'alleato tedesco come il grande paladino del loro sogno nazionalista, non ne trovavano altrettanto nel rendere operative le misure antisemite.
Ma per i politici al potere c'era un altro problema ancora più difficile da gestire: la necessità di nascondere alla propria coscienza il male di cui si stavano rendendo complici. Per questo cercavano mille scuse per giustificarsi con se stessi e scaricare sui tedeschi o sui superiori tutte le responsabilità della politica anti-ebraica. Il filosofo Immanuel Kant ha individuato precisamente questo particolare meccanismo di rimozione. C'é un solo modo, aveva detto, attraverso cui gli uomini possono sfuggire all'inquietudine del disprezzo di sé: trovare la capacità di mentire a se stessi. E così che in genere viene meno quell'istintiva ancora di salvezza che impedisce agli uomini di farsi trascinare verso crimini orribili. In questo depistaggio morale della propria coscienza alcuni dirigenti bulgari furono maestri.

Ci sono vari episodi che rivelano questa singolare ambiguità.
Il re Boris III, che aveva dato il suo consenso alle leggi razziali, confidò al suo consigliere Ljubomir Lulcev il proprio disagio e si giustificò dicendo che aveva preferito giocare d'anticipo, piuttosto che dover sottostare ad un dictat tedesco:
"Ho cercato di ritardare le leggi razziali e non avevo nessuna intenzione di introdurle, ma poiché la Romania, l'Ungheria e persino la Francia le avevano varate, ho preferito che fossimo noi a promulgarle, piuttosto che vedercele imporre."
Il re voleva che si sapesse all'estero e nel suo paese che era costretto a perseguitare gli ebrei, ma che lui personalmente non era d'accordo.
Aveva persino rassicurato il rabbino Hananel , spiegandogli che con lui alla testa del paese gli ebrei sarebbero comunque stati protetti.
Forse ancora più significativo era il comportamento del ministro degli interni Gabrovski, il quale, dopo aver lavorato come avvocato per una ditta ebraica, era diventato antisemita per motivi di carriera ed aveva diretto tutta la macchina burocratica che aveva portato all'approvazione e all'applicazione delle leggi razziali.
Ebbene, questo personaggio, che insieme a Belev era il maggiore responsabile della politica antisemita, ed era considerato l'uomo di fiducia di Berlino, non amava rovinarsi del tutto la reputazione ed apparire come un complice convinto dei nazisti.
Nel settembre del 1942 spiegò ad una delegazione di ebrei che avevano manifestato sotto il cortile del suo ministero che "il peggio era passato" e non dovevano temere per la propria vita.
Poi, quando l'ambasciatore tedesco Adolf Bekerle gli suggerì di organizzare una mostra antiebraica nel centro di Sofia per spiegare alla popolazione il ruolo malefico degli ebrei, il ministro degli interni rifiutò. Si vergognava di mostrare alla popolazione il modo in cui i nazisti vedevano gli ebrei. Riteneva che una mostra di questo genere avrebbe scatenato una reazione negativa da parte della popolazione. Spiegò allora all'ambasciatore tedesco, che rimase stupefatto, che bisognava seguire un'altra tattica. Bisognava agire contro gli ebrei senza tuttavia spiegare le proprie intenzioni. Non lo disse esplicitamente, ma temeva che una presa di posizione troppo forte potesse suscitare il risentimento di una parte del ceto politico bulgaro.
Per questo, come ricorda lo stesso Peshev, nella riunione della maggioranza governativa filo-tedesca del 19 settembre 1942 tranquillizzò i deputati perplessi per l'entità delle misure antiebraiche. Spiegò loro che la questione ebraica sarebbe stata trattata "ragionevolmente, in modo umano e con senso morale".

Gabrovski forse come nessun altro aveva colto nel segno.
Per assecondare i nazisti e realizzare la deportazione senza suscitare clamori c'era un'unica strada in Bulgaria. Agire nell'ombra ed in segreto. In un paese senza una tradizione antisemita si potevano deportare gli ebrei soltanto se non si dava modo alle coscienze di reagire di fronte all'orrore.
Per questo venne tolta al parlamento la sovranità sulla questione ebraica, affidando al governo e alla commissione ebraica diretta da Aleksandar Belev i pieni poteri sulla sorte degli ebrei, per evitare che i deputati potessero manifestare qualsiasi forma di opposizione.
Il 2 marzo 1943 il governo approvò, con il consenso del re, il piano segreto della deportazione, in modo tale che la nazione si trovasse di fronte al fatto compiuto e che le coscienze non si potessero ribellare.
Quella riunione fu un capolavoro di ipocrisia. I ministri approvarono la deportazione degli ebrei di Tracia e Macedonia con la scusa che quella decisione dipendeva esclusivamente dalla volontà dei tedeschi, ma poi, senza mai nominarli, vi aggiunsero ottomila ebrei della Bulgaria storica.
Non li chiamarono con il loro nome , non vollero pronunciare la parola "ebrei" per non dovere dichiarare quella scomoda verità ad alta voce, ma usarono il termine "elementi indesiderabili" e "sovversivi", pericolosi dunque per la sicurezza della nazione.
Tutto avrebbe funzionato probabilmente senza intoppi se non si fosse scatenato improvvisamente il meccanismo della vergogna.
Il ministro degli interni Gabrovski non se lo immaginava di certo, ma lui stesso sarebbe entrato un giorno in questo meccanismo e ne sarebbe stato travolto suo malgrado.


L'iniziativa di Peshev

Anche Dimitar Peshev si era fatto trascinare giorno dopo giorno nel meccanismo dell'opportunismo collettivo e nel clima di autoinganno che caratterizzava la direzione del paese.
Era entrato in politica perché aveva sentito il peso della degenerazione della democrazia.
Come egli stesso ammise nelle memorie, aveva partecipato ad un governo autoritario, perché riteneva che di fronte ai due esperimenti politici che si facevano nella Germania di Hitler e nella Russia di Stalin, anche la Bulgaria dovesse ricercare una strada completamente nuova. Pensava che un sistema senza partiti potesse servire per rigenerare il paese e porre un freno alla corruzione.
In qualità di ministro della giustizia mostrò però di essere molto sensibile al valore della vita umana.
Mentre l'esercito, sotto l'influenza del ministro della difesa, voleva la condanna a morte di Damjan Velcev, un personaggio politico repubblicano che aveva cercato di realizzare un golpe anti-monarchico, Peshev si impegnò con tutte le sue forze per evitare un'esecuzione sommaria ed ottenere la grazia da parte del re.
La sua netta presa di posizione gli costò il posto di ministro, perché fece una battaglia solitaria osteggiata dalla maggioranza del governo.
Eppure la sua sensibilità umana in un primo momento non gli fu sufficiente per capire che cosa fosse il nazismo. In Bulgaria non era molto semplice orientarsi, data la particolare collocazione internazionale del paese.
Molte decisioni sembravano dettate più da circostanze che non lasciavano alternative che da una reale scelta tra diverse possibilità. Peshev spiega con molta onestà i motivi che lo spinsero a guardare con simpatia all'alleanza con la Germania, non certo dettati dall'adesione all'ideologia di Hitler, ma piuttosto dal suo spirito patriottico.
Prima di tutto la speranza che Berlino potesse soddisfare le aspirazioni bulgare sulla Tracia e la Macedonia, dopo che la società delle nazioni e i paesi democratici avevano lasciata sola la Bulgaria.
Peshev ricorda il grande entusiasmo filo-tedesco che attraversò il paese quando la diplomazia tedesca permise il recupero della Dobrugia .
"Dopo tante sciagure, dopo tanto dolore per le perdite delle care terre bulgare - annotava soddisfatto - era la prima volta che il paese ritrovava la speranza per il proprio futuro ."
In secondo luogo Peshev fu preso, come tanti altri in Bulgaria, da un senso di sicurezza e di tranquillità per la firma del patto Ribbentrop-Molotov dell'agosto del 1939
"Ebbi modo di constatare di persona la grande felicità della gente per l'accordo sottoscritto da Germania e Unione Sovietica. Mentre ero in viaggio nel nord del paese il caso volle che mi trovassi nella città di Botevgrad quando i giornali pubblicarono la notizia della firma del patto . Mi fermai nella piazza centrale e fui circondato da una folla di cittadini che mi chiedeva informazioni più dettagliate....leggevo sui loro volti una gioia sincera".
La Russia di Stalin appoggiava la politica tedesca ed i bulgari si sentivano più rassicurati nell'affidare le loro sorti alla Germania.
Quando poi l'esercito italiano si trovò in difficoltà nel corso della campagna di Grecia, il sogno bulgaro di potersi affidare alla Germania per perseguire i propri interessi nazionali rimanendo però neutrali, si spezzò di colpo. La Bulgaria, come ricorda Peshev, dovette schierarsi dalla parte di Hitler con la firma del Patto Tripartito il 2 marzo del 1941, per non fare la fine della Iugoslavia. Le truppe tedesche dovevano attraversare il paese per andare in aiuto di Mussolini.
"Consideravo inevitabile l'adesione al patto tripartito perché per la Bulgaria era questo l'unico modo di sfuggire al male peggiore,cioé diventare teatro delle operazioni belliche, essere occupata dalla Germania ed essere trascinata nel conflitto ."

Il suo amore per la patria portò Peshev a guardare Hitler dal punto di vista degli interessi nazionali della Bulgaria, senza porsi il problema di quanto male il dittatore tedesco stesse procurando ai paesi vicini. Giunse persino a dichiarare in parlamento, l'11 novembre 1941, che Hitler era il più grande dirigente della nostra epoca, esclusivamente perchè vedeva in lui il tramite per il tanto desiderato recupero dei territori perduti.
Più sorprendente fu il suo silenzio nei confronti della politica antiebraica del governo. L'avvocato Peshev proveniva dalla cittadina di Kjustendil, dove la sua famiglia aveva ottimi rapporti con i vicini ebrei, dove sua sorella aveva frequentato la scuola elementare ebraica, dove era normale che una donna ebrea allattasse il bambino di una donna non ebrea.
Eppure il 19 novembre del 1940 Dimitar Peshev presiedette senza protestare la sessione del parlamento in cui il ministro degli interni Gabrovski presentò la legislazione anti-ebraica.
Fu una decisione sofferta, perché Dimitar Peshev qualche giorno prima si era rivolto al suo amico ebreo Jako Baruch per esprimergli la sua avversione nei confronti della legge.
"Non credo che si possa trovare in Bulgaria un solo deputato che voti una simile legge. Noi siamo un piccolo paese, un piccolo Stato, e abbiamo più volte dimostrato la nostra tolleranza nei confronti delle minoranze. È poco probabile che Gabrovski la possa promuovere.
E poi, durante lo stesso dibattito in parlamento, il presidente Peshev diede modo agli oppositori Nikola Musanov e Pekto Stainov di avanzare tutti i loro dubbi nei confronti di una legge che rappresentava una rottura radicale con la tradizione del paese.
Peshev giustificò in seguito il suo silenzio ed il suo compromesso con il male, asserendo che aveva ritenuto, e insieme a lui molti deputati della stessa maggioranza, quelle leggi una farsa, un modo per ingraziarsi i tedeschi, pensando che nella pratica non sarebbero mai state applicate.
"Quando il problema venne sollevato, ricorda Peshev, ero convinto che si cercasse di adeguare la nostra politica a quella della Germania. Molti giustificavano quelle misure, considerate temporanee e limitate, come un mezzo per raggiungere gli obiettivi nazionali . Nessuno sospettava che quei provvedimenti potessero diventare permanenti ed assumere le proporzioni di quelli applicati in Germania".
Peshev per lungo tempo preferì convivere con il proprio malessere, generato da un conflitto interiore, piuttosto che dichiarare ad alta voce la terribile ingiustizia di cui il governo si era reso responsabile.
In questa sua passività c'era una ragione umana che i nazisti erano riusciti ad innescare. Le leggi razziali erano il prezzo da pagare per ridare una patria ai bulgari di Tracia e di Macedonia.
Così, per tendere la mano al fratello lontano, Peshev, come tanti altri, minimizzava la discriminazione verso il proprio vicino ebreo e trovava mille scuse per nascondere in pubblico i propri problemi di coscienza.
Un primo momento di crisi nei confronti della politica internazionale Peshev l'ebbe quando il parlamento bulgaro approvò la dichiarazione di guerra agli Stati Uniti, dopo l'attacco giapponese a Pearl Harbour del 7 dicembre 1941. Il vicepresidente del parlamento cercò invano di prendere la parola per sostenere che la Bulgaria non doveva prendere una posizione anti-americana, dopo l'aggressione giapponese.
Il suo tentativo non riuscì per il boicottaggio della parte filo-governativa dell'assemblea, che gli impedì letteralmente di parlare.
Ci volle però una visita disperata, prima del suo amico Jako Baruch e poi di una delegazione di concittadini di Kustendil, che lo avvisarono dell'imminente deportazione dei suoi amici di infanzia e degli ebrei della sua città perché Peshev rimuovesse dalla coscienza tutti i falsi alibi che vi si erano annidati e diventasse consapevole del male estremo di cui si stava rendendo complice il gruppo dirigente bulgaro.
L'incontro con Jako Baruch è emblematico del travaglio personale di Peshev.
Prima egli negò risolutamente la veridicità delle notizie che gli portava il suo vecchio amico, anche se aveva avuto modo di raccogliere in parlamento delle informazioni allarmanti.
"Vuoi che io in qualità di vicepresidente sia all'oscuro di tutto?"
Poi cercò una via d'uscita al suo malessere, offrendo il giorno dopo a Jako Baruch la possibilità di salvare la sua famiglia con il rilascio di un salvacondotto.
E finalmente, quando Jako lo mise drammaticamente di fronte alla responsabilità politica per la sorte di tutti gli ebrei del paese, decise di agire pubblicamente per arrestare la deportazione.
Peshev non aveva compreso il male nella sua dimensione generale, ma lo aveva intuito a partire dalla condizione disperata degli amici della sua città.
E quando lo capì Peshev decise di agire non soltanto per amore dei suoi amici, ma perché si era vergognato della propria complicità, attuata con il silenzio e l'indifferenza.
Aveva capito che era in gioco non solo la vita degli ebrei, ma anche la sua dignità di politico e di essere umano. Muoversi per la loro salvezza significava anche ritrovare il rispetto di se stesso.
Peshev, attraverso un dialogo interiore, aveva vissuto una esperienza socratica, aveva "pensato", come commenterebbe la filosofa Hannah Arent, aveva messo in discussione le regole di condotta socialmente accettate, aveva capito che il proprio io non può convivere con un assassino che si porta dentro di sé. Era diventato quell'anti-Eichmann che la Arent aveva cercato durante tutto il suo percorso filosofico.
Peshev intuì che doveva mettere tutto il ceto politico davanti ai falsi alibi della coscienza, facendoli vergognare per la propria corresponsabilità nel genocidio degli ebrei.
È con questa impostazione che si lanciò nella sua battaglia politica. Si accorse che aveva in mano la possibilità di far fallire il piano della deportazione. Avrebbe reso pubblico nella riunione del parlamento, prevista per il giorno dopo, la decisione segreta della deportazione dei cittadini bulgari di origine ebraica.
Con la minaccia di far scoppiare uno scandalo si presentò, accompagnato da una delegazione di deputati, nell'ufficio del ministro degli interni Gabrovski e al termine di uno scontro drammatico lo costrinse a sospendere l'ordine della deportazione.
Poi, insieme agli altri deputati telefonò personalmente a tutte le prefetture per verificare che il contrordine venisse rispettato.
Peshev osservò come il cedimento di Gabrovski fosse scaturito da uno stato di disagio personale, dalla paura di perdere la reputazione di fronte ad una azione di cui nell'intimo si vergognava. Se il piano si fosse compiuto in segreto non avrebbe avuto problemi di coscienza, ma ora che era stato scoperto si sentiva colpevole, smascherato nel suo punto debole.
"Mi impressionò quanto fosse confuso e agitato - scrive Peshev nelle sue memorie - e benché mi sembrasse inverosimile che di fronte alle mie proteste circostanziate egli potesse ancora sostenere che non ci fosse in atto nulla contro gli ebrei, non vedevo in lui solo inganno e perfidia. Pensavo che avesse trovato una formula di comodo per uscire dal suo disagio. Così mi convinsi che non avrebbe più attuato il suo piano".
Gabrovski ottenne l'avvallo per la sospensione della deportazione da parte "della più alta autorità ", come spiega un rapporto della ambasciata tedesca, probabilmente dallo stesso palazzo del re, ma dimostrò in quella circostanza una sorprendente autonomia.
In quella giornata aveva ricevuto Peshev per ben due volte, mentre il primo ministro Filov aveva chiuso la porta in faccia alla delegazione. Ed inoltre non volle mai consultarsi con Belev, il responsabile della commissione ebraica che aveva architettato il piano segreto e che era in Bulgaria il più fanatico degli antisemiti. Sapeva certamente che Belev avrebbe usato tutto il suo potere per bloccare l'ordine di sospensione.
Dunque fu proprio dall'ufficio del ministro degli interni bulgaro che venne revocato- caso unico in tutta Europa- l'ordine di deportazione degli ebrei, per merito dell'ostinazione del vicepresidente del parlamento.

Peshev però non si accontentò di una crisi personale, né di un ordine solo temporaneamente revocato, ma ritenne che dal parlamento bulgaro dovesse emergere un segnale politico inequivocabile contro il genocidio. Sapeva che da un momento all'altro il governo poteva riproporre la deportazione, se non veniva rotto pubblicamente il clima di omertà e di ipocrisia sulla sorte degli ebrei.
Il primo ministro Filov cercò di convincerlo a rinunciare a questo tentativo, dicendogli che le sue perplessità potevano essere discusse e chiarite in privato, ma Peshev continuò per la sua strada e riuscì a realizzare un secondo miracolo.
Convinse 42 deputati della maggioranza a firmare un documento che chiedeva al re e al governo di non macchiare l'onore del paese con un crimine così efferato.
Peshev riuscì a trasmettere loro un concetto fondamentale, che né i sostenitori di Hitler in Germania, né i sostenitori di Mussolini in Italia, né i parlamentari ungheresi del governo Horty, né i deputati romeni e slovacchi avevano capito, colpiti com'erano dal fascino di Hitler. Il male che facevano agli ebrei era un male che facevano a se stessi.
Consegnare gli ebrei ai tedeschi avrebbe significato imprimere la macchia dell'infamia per tutti i secoli futuri sulla propria storia nazionale. Con lo sterminio degli ebrei non solo sarebbe stato annientato un popolo, ma si sarebbe distrutto il prestigio morale di una nazione.
È quanto per esempio Milosevic, il grande ispiratore della pulizia etnica in Iugoslavia, non è in grado oggi di capire. Non soltanto ha fatto morire migliaia di bosniaci e di kossovari, ma farà pagare le conseguenze morali della sua politica alle generazioni future del suo paese.
Il nazionalista Peshev aveva capovolto il discorso patriottico, rovesciandone il contenuto. Per un ideale nazionalistico, non si poteva diventare complici di un genocidio. L'amputazione "morale" era ben più grave dell'amputazione "territoriale".
Peshev osservò come in quel momento molti deputati che accettarono di firmare si sentissero liberati da un macigno che pesava sulla loro coscienza.
"Mi ricordo le parole del deputato di Breznik, Alexandar Simov Givov, che, dopo avere firmato si lasciò andare ad una esclamazione di goia: "La dignità della Bulgaria è salva."
L'appello della vergogna, così si potrebbe definire il documento di Peshev, aveva fatto saltare tutte le autogiustificazioni e le forme di depistaggio morale che caratterizzavano i protagonisti della scena bulgara.
Avendo reso il male visibile, contro il tentativo di praticarlo in segreto, Peshev aveva rotto quel particolare meccanismo dell'opportunismo che stava portando i dirigenti bulgari a consegnare gli ebrei senza convinzione.
Fino a quel momento l'establishment aveva rimosso il proprio malessere per la sorte degli ebrei, ma dopo l'iniziativa di Peshev quel malessere si era manifestato pubblicamente e permise il salvataggio degli ebrei dell'interno.
Il re, Boris III, nell'incontro con Hitler del 31 marzo espresse il proprio rifiuto di fronte alle pressioni del Fuhrer.
Il governo bulgaro, nonostante i reiterati tentativi di Belev e dell'inviato di Eichmann, Dannecker, mobilitò gli ebrei nei campi di lavoro, ma non li consegnò ai nazisti.
La chiesa ortodossa guidata dal coraggioso Stefan prese una posizione netta contro la deportazione.
Il nuovo reggente Filov, dopo la morte di Boris, seguì la sua stessa linea, anche se molti avevano ritenuto che la sua nomina fosse avvenuta a seguito di un complotto nazista per avvelenare il re.
Fu paradossalmente lo stesso ambasciatore tedesco a telegrafare a Berlino per suggerire che era controproducente continuare a fare pressione su Sofia per la deportazione. Spiegò che i bulgari non volevano procedere oltre sulla questione ebraica, perché temevano di essere bombardati dai paesi alleati.
Il bombardamento di cui parlava Beckerle era in realtà il bombardamento della vergogna che un uomo come Peshev aveva scatenato.

Ma fino a che punto Boris III fu preda di questo bombardamento?
Il re non aveva espresso alcuna opposizione al piano segreto Belev-Dannecker e si era scaricato la coscienza, attribuendo ogni responsabilità all'operato del governo.
Anche lui si era sentito rassicurato dalla decisione di mantenere segreta la deportazione, in modo da evitare il rischio di una reazione di disgusto nella società.
Quando però Peshev fece esplodere lo scandalo in parlamento, dopo il suo incontro con il ministro degli interni, egli cominciò a prendere le distanze dai propositi nazisti, prima avallando le incertezze di Gabrovski e poi optando perchè gli ebrei fossero mobilitati nei campi di lavoro, ma non consegnati ai tedeschi, come invece chiedeva il capo della Kev, Alexandar Belev.
Tuttavia la sua vergogna fu soltanto parziale, incerta, mai del tutto chiara e consapevole.
Lo si può costatare chiaramente dalla sua reazione personale nei confronti del gesto di Peshev.
Il re infatti non visse la drammatica denuncia del vicepresidente del parlamento come una liberazione dall'appannamento della propria coscienza, non ne fui sollevato, ma al contrario mostrò nei confronti di Peshev un grande astio personale. In accordo con il primo ministro Filov lo fece rimuovere dalla sua carica in parlamento, dopo averlo fatto denigrare moralmente con l'accusa di aver agito per denaro e per secondi fini.
Mai Peshev ricevette un segnale di simpatia dalla casa reale. Il sovrano non poté sopportare che un politico della sua maggioranza lo avesse messo platealmente di fronte alle proprie responsabilità.
Il suo comportamento fu completamente diverso da quello che Peshev ebbe nei confronti dell'amico Baruch. Il vicepresidente fu grato all'amico che lo aveva costretto a pensare. Il re invece odiò Peshev fino alla fine, fino alla morte improvvisa.
Il re si mosse più per la paura di perdere la reputazione, che per una convinzione profonda. Lo si vide chiaramente nella diversità di comportamento che assunse nei confronti degli ebrei di Tracia e di Macedonia, rispetto a quelli dell'interno.
Dopo il 9 marzo e il gesto di Peshev, il re avrebbe potuto impedire anche la deportazione degli ebrei dei territori, poiché tutto l'apparato logistico era in mano ai soldati bulgari.
Non lo fece perché mancarono delle proteste forti nella società bulgara e Boris non si sentì mai messo sotto accusa, come invece era accaduto per gli ebrei dell'interno.
La sua vergogna si era fermata a metà strada. Nacque dalla paura della perdita della reputazione, ma non si trasformò in una presa di posizione consapevole, come quella che invece espresse Peshev nel documento presentato in parlamento.

La storia straordinaria del vicepresidente del parlamento bulgaro avrebbe potuto fare il giro del mondo e il nome Peshev avrebbe potuto essere conosciuto sui banchi di tutte le scuole insieme a quello di una ragazza di Amsterdam di nome Anna Frank, perché era stato l'unico politico di rango di un paese alleato della Germania ad avere rotto il clima di omertà attorno al destino degli ebrei.
Facendo fallire il progetto della deportazione aveva dato vita in Bulgaria alla più importante resistenza nazionale contro il nazismo.
Anche se non aveva mai preso un fucile in mano contro i tedeschi, era stato Peshev il loro più grande nemico, il più pericoloso partigiano di tutta la Bulgaria. Aveva personalmente combattuto contro Hitler la battaglia decisiva e aveva vinto: gli ebrei erano ancora vivi. Nessun esercito al mondo, nessun capo di stato occidentale, nessun papa era stato in grado di infliggere al nazismo una sconfitta così pesante nella guerra senza quartiere contro gli ebrei. Solo in Danimarca era successo qualcosa di simile.

Ma Peshev ormai era un uomo che pensava con la propria testa, che non si lasciava più sedurre dallo spirito dei tempi. Per questo, poco prima che l'Armata Rossa entrasse in Bulgaria, denunciò in parlamento il rischio della nascita di un nuovo totalitarismo. Mentre altri deputati come Kimon Georgiev e Damian Velcev si schierarono con i comunisti, Peshev non accettò di farsi trascinare in una nuova dittatura.
Ciò gli costò molto caro. Fu processato con l'imputazione di essere antisemita e antisovietico. Nel corso del processo l'accusa arrivò ad insinuare che si era mosso a favore degli ebrei soltanto per bramosia di denaro.
In realtà la sua vera colpa, per i giudici comunisti, era quella di non aver aderito al nuovo regime.

Peshev visse così l'umiliazione più terribile per un uomo che aveva ribaltato il male salvando gli ebrei di un popolo intero.
Nell'aula del tribunale di Sofia, nel gennaio del 1945, si accorse che solo per un caso fortuito la Corte popolare comunista non lo aveva condannato a morte.
Era stata la straordinaria abilità del suo avvocato ebreo, Joseph Nissim Jasharoff, a salvargli la vita. E la difesa di Peshev costò molto cara al coraggioso avvocato di Sofia: i comunisti lo costrinsero a lasciare il paese, ad abbandonare tutto e a ricominciare da capo una vita lontano dal suo paese.
Pesehv fu condannato "soltanto" a quindici anni di lavori forzati.
Vide seduto sulla panca destinata ai condannati al plotone di esecuzione, il suo carissimo amico ingegnere e deputato Spas Ganev, con cui aveva condiviso tutte le battaglie politiche. Ascoltò dalle parole del presidente del tribunale che ben 20 dei 43 deputati firmatari della lettera di protesta contro il genocidio degli ebrei erano stati condannati a morte, 6 all'ergastolo, 8 a quindici anni di prigione, 4 a cinque anni, 1 ad un anno.
Pensò in quel momento, come scrive sconfortato nelle memorie, che la sua ribellione contro il Male, quel Male che aveva portato gli ebrei ad Auschwitz, non aveva insegnato nulla.
Un nuovo Male sorgeva nel suo paese e migliaia di persone erano trascinate nei campi di rieducazione.
Si stupì perché durante gli anni del nazismo c'era stato qualcuno che si era vergognato per la sorte degli ebrei mentre ora le coscienze del nuovo ceto dirigente erano impermeabili, passive, indifferenti di fronte ad una nuovo tipo di persecuzione dell'uomo.

Peshev fortunatamente riuscì ad evitare il gulag, non certo per misericordia del potere, ma per l'aiuto di un suo vicino di casa, Boris Cokin, un comunista convinto, che aveva tuttavia mantenuto un senso di riconoscenza verso l'amico Dimitar che l'aveva aiutato nel passato.
Ma da vivo Peshev conobbe un tipo particolare di morte: l'assassinio della memoria. Perse la casa, i suoi libri, la professione, non poté sposarsi, fu costretto per anni a vegetare dal mattino alla sera in attesa della fine.
Il comunismo cancellò ogni traccia del gesto di Peshev e di quanti lo avevano seguito e fece del partito e del suo segretario, Todor Zhivkov, l'artefice del salvataggio degli ebrei. Si appropriò del bene compiuto da altri, non per trarne una lezione universale, ma al contrario per trovare una legittimazione ai propri crimini.
Il nuovo totalitarismo non poteva raccontare la vera storia di Peshev. Avrebbe dovuto parlare di uomini che avevano avuto il coraggio di andare controcorrente e di prendere posizione contro il male.
La loro vicenda poteva diventare un esempio pericoloso, un incitamento sovversivo per il regime dei gulag. Poteva spingere altri uomini alla ribellione. Per questo la loro memoria doveva essere cancellata.

Peshev è stato un uomo di uno straordinario coraggio, non solo perché ha rischiato la vita opponendosi ai piani tedeschi, ma perché ha avuto la forza di mettersi contro il proprio ambiente politico. Da personaggio rispettato e riverito, si è ritrovato ad essere insultato e biasimato, fino a subire l'umiliazione del siluramento in parlamento. La vedova di Petar Mihalev, un deputato di Kustendil che si recò assieme a Peshev dal ministro degli interni, mi ha raccontato che suo marito e Peshev umanamente si sentirono più colpiti dalla perdita di prestigio nel loro ambiente politico, che dallo stesso processo comunista. Sembra un paradosso, ma si soffre di più quando si va contro il parere degli amici piuttosto che contro dei nemici.
La storia di Peshev mi ricorda un po' quella di Dubcek in Cecoslovacchia. Dubcek era un comunista convinto e quando non accettò l'invasione sovietica ed i carri armati russi dovette subire a Mosca la più terribile delle umiliazioni: fu insultato, attaccato da Breznev e da tutti i dirigenti comunisti. Cercò di spiegare loro che aveva diretto la Primavera di Praga per il bene del socialismo, ma gli risposero che era un traditore. Pensava di poterli convincere, ma si trovò isolato e così perse il rispetto dell'ambiente da cui egli stesso proveniva. Peshev si ritrovò nella stessa situazione.
Considero straordinariamente grandi le figure come Peshev e Dubcek, che in nome della verità, in nome della lotta al male, hanno il coraggio di mettersi contro l'ambiente politico in cui si sono fino a quel momento totalmente identificati.
Queste figure dimostrano che gli uomini, indipendentemente dalle idee in cui credono, hanno la possibilità di riconoscere il Male e di scoprire la Verità nascosta dall'ideologia. Rappresentano per tutti noi un grande motivo di speranza. Eppure spesso pagano duramente, sono umiliate ed emarginate. Se osserviamo attentamente l'evoluzione dei sistemi totalitari e le grandi crisi, o anche i processi di pace, sono proprio queste persone di frontiera ad avere un ruolo fondamentale per il cambiamento. Ma spesso accade che non siano totalmente rivalutate dai posteri. L' "ex" che passa dal "male" al "bene" non è sempre considerato. A Praga ci sono molti che per esempio dicono: "Dubcek ha fatto la Primavera di Praga, ma comunque rimane un comunista ". A Sofia per anni si è ricordato che Peshev era un filo-tedesco, piuttosto che ricordare che con la sua azione aveva impedito la deportazione degli ebrei.
La maggioranza degli ebrei salvati ha avuto difficoltà nel riconoscere che doveva la vita ad un ex filo-tedesco. Avrebbero preferito essere stati salvati da un uomo totalmente puro, e così molti non lo hanno considerato.

L'ingratitudine nei confronti di Peshev da parte della comunità ebraica di Sofia è uno dei temi più delicati che affronto nel libro. In un mio lavoro precedente, Ebrei Invisibili , avevo analizzato le motivazioni che avevano spinto una parte dei sopravvissuti ebrei ad abbracciare l'ideologia comunista. Scrissi allora che il trauma provato dagli ebrei per il tradimento subito e per l'indifferenza della popolazione alla loro sorte (in particolare in Polonia, Ungheria e Romania) aveva portato molti di loro a ricercare una nuova forma di assimilazione nel comunismo. L'idea di un mondo nuovo che abolisse le disuguaglianze, le differenze etniche, aveva affascinato migliaia di ebrei. Molti non ebbero la capacità di "vedere " le nuove forme di repressione, tanto era stato grande il peso terribile del passato. L'Armata rossa e l'Unione Sovietica erano per loro una garanzia che un simile destino non si sarebbe più ripetuto. Così, dopo i tradimenti subiti e l'umiliazione delle leggi razziali, si sentivano più sicuri con l'Armata rossa alle spalle.
In Bulgaria, unico paese dell'est dove gli ebrei si sono salvati, si è verificato invece un fatto particolare. I dirigenti della comunità ebraica di Sofia (ovviamente condizionati dal dictat del potere totalitario) hanno cercato di spiegare la storia della loro salvezza, non a partire dai fatti reali, ma con un metro ideologico astratto. Poiché credevano in un nuovo mondo, hanno interpretato il passato a partire dall'ideologia in cui si erano totalmente identificati.
Così è accaduto che le azioni degli uomini di sinistra e filo-comunisti venissero esaltate, mentre i protagonisti reali del salvataggio, poiché appartenevano al "campo avverso ", fossero dimenticati. Il bisogno di identificazione con il nuovo regime, la necessità di credere in una salvezza definitiva nel nuovo mondo socialista, ha fatto vedere la storia passata in un modo completamente distorto. Per questo i vari Stefan, Peshev, Mihalev, Kurtev e tutti gli altri membri della delegazione di Kjustendil, sono stati dimenticati e mai riconosciuti ufficialmente da parte degli ebrei bulgari. Invece avrebbero meritato che fosse innalzato a loro nome, in segno di riconoscenza, un grande monumento a Sofia, poiché in nessun altro paese dell'est, dove gli ebrei furono annientati, ci furono degli uomini simili..
Qualcuno, nell'ambiente ebraico, avrebbe dovuto avere il coraggio di dire la verità ad alta voce e denunciare pubblicamente la menzogna del regime.
Purtroppo non è stato così.
Mentre portavo avanti le mie ricerche mi è capitato di discutere con alcuni membri influenti della comunità ebraica di Sofia e mi sono sentito dire che Peshev per loro rimaneva comunque un "fascista".
Ovviamente, con questa impostazione era difficile che avessero la curiosità di ragionare sulla figura di Peshev, quasi che l'aspetto della sua posizione politica fosse più importante della sua azione reale. Come a dire che un uomo debba essere giudicato per la sua etichetta politica, piuttosto che nella sua concretezza di essere umano. Così, se Peshev aveva alla fine preso posizione contro la deportazione, lo aveva fatto soltanto perché spaventato dall'arrivo dell'Armata rossa o perché costretto dall'attività delle forze che ruotavano attorno al partito comunista.
L'esaltazione mitica del ruolo dell'Armata rossa non tiene conto di un fatto molto importante. La decisione di consegnare o meno gli ebrei non dipendeva dal quadro complessivo della guerra, ma dalle scelte umane delle persone. Nel mio libro sottolineo un fatto storico che meriterebbe di essere ricordato negli ambienti ebraici di Sofia: in Ungheria, un anno dopo l'iniziativa di Peshev, quando ormai l'Armata rossa era alle porte del paese e i tedeschi avevano perso definitivamente la guerra, l'amministrazione del governo Horty non ebbe alcuna remora nel consegnare gli ebrei ai tedeschi. Più di mezzo milione di loro finì nei campi perché non ci fu nessun Peshev che ebbe il coraggio di dire di no ad Hitler.

Eppure Peshev, come scrivo nel libro, dimostrò una grande tolleranza e comprensione per l'ingratitudine della comunità ebraica di Sofia. Ho chiesto varie volte alle nipoti se Peshev, in tanti anni di solitudine, non avesse mai provato un risentimento per il fatto che gli ebrei che aveva salvato non si ricordassero mai di lui. Nessuno infatti della comunità andava a trovarlo o lo invitava a partecipare a delle iniziative.
Peshev, mi hanno risposto, considerava il silenzio attorno a lui, non come una colpa degli ebrei, ma come un effetto del regime totalitario.

Quel regime aveva per certi versi corrotto i comportamenti di tutte le persone.
Peshev era contento per gli aiuti economici che venivano da qualche ebreo emigrato in Israele, ma non se la prendeva per il comportamento degli ebrei comunisti che seguivano il conformismo del regime.
Peshev aveva mantenuto una grande saggezza, nonostante la persecuzione. Se io fossi stato al suo posto, probabilmente sarei stato meno lucido.

Come rendere oggi onore alla memoria di Peshev dopo più di mezzo secolo di silenzio?
Peshev un giorno salvò gli ebrei, ma lo avrebbe fatto per chiunque fosse stato perseguitato.
Aveva scritto nel suo documento che il più alto valore della politica era in ogni circostanza la prevenzione dei genocidi.
Personalmente credo che chi oggi combatte contro la Serbia di Milosevic per impedire la pulizia etnica si ricollega moralmente allo spirito di Peshev.



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