Dimitar Peshev  

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Riflessione
sulla guerra in Iugoslavia



Un sentimento di vergogna può avere la forza di impedire un genocidio e creare dei dubbi tra gli stessi complici di un male radicale?
Un rimorso di coscienza può rimanere latente nel loro cuore ed esplodere di fronte ad un gesto individuale o collettivo che li metta clamorosamente di fronte alle proprie responsabilità?

Nella storia dei Balcani è già accaduto 56 anni fa che la vergogna accesasi all'ultimo minuto abbia impedito la deportazione di un popolo, mentre oggi assistiamo a Belgrado ad un assordante silenzio della coscienza di fronte alla pulizia etnica. Persino i giocatori di calcio serbi che militano nelle squadre italiane non hanno avuto parole di sdegno per la sorte dei Kosovari.
Il 18 agosto del 1943 Adolf-Heinz Beckerle, l'ambasciatore tedesco a Sofia, mandò al ministro degli esteri Von Ribbentrop un singolare telegramma in cui gli spiegava che era controproducente per il Terzo Reich continuare a fare delle pressioni sulla Bulgaria per chiedere la deportazione degli ebrei. Gli spiegò che i bulgari avevano fatto marcia indietro per la paura che una simile decisione avrebbe scatenato l'ira degli alleati fino a provocare un pesantissimo bombardamento sul loro paese.
Non si trattava però soltanto della paura delle bombe,come aveva pensato Beckerle, ma soprattutto di un altro tipo di paura, quella della coscienza.

L'aveva accesa il 7 marzo del 1943 Dimitar Peshev, il vicepresidente del parlamento, un nazionalista convinto, come lo è oggi Milosevic, che sull'onda dell'avanzata tedesca sognava una grande Bulgaria. Aveva capito all'ultimo istante che era in gioco non solo la vita degli ebrei, ma anche la sua dignità di politico e di essere umano e la dignità stessa della nazione. Muoversi per la loro salvezza significava ritrovare il rispetto di sè. Intuì che se voleva salvare gli ebrei doveva mettere tutto il ceto politico davanti ai falsi alibi della coscienza, facendoli vergognare per la propria corresponsabilità nel genocidio in atto.
Convinse così 42 deputati della maggioranza a firmare un documento con il quale chiedeva al re e al governo di non macchiare l'onore del paese con un crimine così efferato.

Peshev riuscì a trasmettere loro un concetto fondamentale, che i sostenitori e gli alleati di Hitler in Europa non avevano capito, colpiti com'erano dal fascino del Fuhrer. Il male che facevano agli ebrei era un male che facevano a se stessi.
Consegnare gli ebrei ai tedeschi avrebbe significato imprimere la macchia dell'infamia per tutti i secoli futuri sulla propria storia nazionale. Con lo sterminio degli ebrei non solo sarebbe stato annientato un popolo, ma si sarebbe distrutto il prestigio morale di una nazione.
E' quanto oggi Milosevic non è in grado di capire. Non soltanto ha fatto morire migliaia di bosniaci e di kosovari, ma farà pagare le conseguenze morali della sua politica alle generazioni future del suo paese. I serbi nei prossimi anni leggeranno nei libri di storia che il '900 è cominciato con il genocidio degli armeni, è stato poi segnato dall'Olocausto ebraico, dai gulag di Stalin, dai genocidi in Cambogia e in Ruanda ed è terminato con la pulizia etnica perpetrata dal loro paese. I giovani di Belgrado vivranno così nel nuovo millennio le stesse angosce esistenziali che molti tedeschi hanno provato nel dopo guerra, per quel terribile passato che pesa come un macigno sull'immagine della loro nazione.

Il nazionalista Peshev aveva invece capovolto, nel momento più drammatico della seconda guerra mondiale, il discorso patriottico dei dirigenti del suo paese, rovesciandone il contenuto. Per un ideale nazionalistico, non si poteva diventare complici di un genocidio. L'amputazione "morale" era ben più grave dell'amputazione "territoriale ".
Peshev osservò come allora molti deputati che accettarono di firmare la sua presa di posizione si sentissero liberati da un macigno che pesava sulla loro coscienza.
"Mi ricordo le parole del deputato di Breznik, Alexandar Simov Givov, che, dopo avere firmato si lasciò andare ad una esclamazione di goia: "La dignità della Bulgaria è salva."
L'appello della vergogna, così si potrebbe definire il documento di Peshev, aveva fatto saltare tutte le autogiustificazioni e le forme di depistaggio morale che caratterizzavano i protagonisti della scena bulgara fino ad impedire per un miracolo della coscienza la deportazione ad Auschwitz di 48 mila ebrei.

In Serbia questo meccanismo della coscienza non è funzionato, né durante i dieci lunghi anni dell'interminabile pulizia etnica che hanno marcato il potere di Milosevic, né quando in pochi giorni, dopo l'inizio dei bombardamenti della Nato, centinaia di migliaia di kosovari sono stati espulsi dal loro paese, in uno scenario allucinante che ricorda le marce forzate che portarono, quasi un secolo fa, un milione e mezzo di armeni ad un destino tragico nel deserto della Mesopotamia. La fulmineità dell'azione ha preso alla sprovvista i vertici della Nato, che mai si sarebbero aspettati una tale barbarie alle soglie del 2000, ma non ha creato nessun drammatico stupore nell'opinione pubblica serba.
Come spiegare questo silenzio, che ricorda per certi versi quello terribile e altrettanto enigmatico di tanti uomini comuni tedeschi durante la soluzione finale?
Certamente tra i soldati che portano avanti con zelo e senza rimorso il loro sporco lavoro nel Kosovo, violentando donne e spingendo alla fuga, con l'assassinio di centinaia di persone, la popolazione musulmana, ci sono molti che si sentono felici di purificare il "sacro" territorio della Serbia dalla presenza ingombrante dei diversi. Il sociologo polacco Zigmund Bauman, descrivendo i carnefici dei gulag e dei lager nazisti li aveva paragonati a dei giardinieri che per costruire un meraviglioso prato inglese si sentivano autorizzati ad eliminare le erbacce. Era come se l'annientamento degli ebrei o dei nemici del popolo fosse la chiave magica per il raggiungimento di una società perfetta. Lo stesso folle sogno di un paese incontaminato sembra riproporsi tra quei nuovi "volonterosi carnefici di Hitler" che agiscono a Belgrado all'interno della macchina della pulizia etnica.

Ma c'è anche un altro modo con cui gli uomini riescono a nascondere alla propria coscienza il male di cui sono complici e che spiega in queste ore il meccanismo di rimozione che porta molti serbi a non provare vergogna e a rimanere indifferenti di fronte alla pulizia etnica. Non ci sono infatti oggi nella federazione iugoslava, soltanto i fanatici del male: alle loro spalle, come è accaduto nella Germania di Hitler, esiste la massa delle persone che non vuole vedere, non vuole pensare e volge lo sguardo solo verso gli aerei della Nato.
Il meccanismo dell'autocensura della coscienza lo aveva ben spiegato il filosofo Immanuel Kant, quando aveva osservato che gli esseri umani possono sfuggire all'inquietudine del disprezzo di sé solo se trovano il grimaldello utile per mentire a se stessi. E così che in genere viene meno quell'istintiva ancora di salvezza che impedisce agli uomini di farsi trascinare verso crimini orribili.
A Belgrado troviamo oggi molti esempi di questa particolare forma di automenzogna collettiva che non può essere spiegata semplicemente come effetto indotto dalla censura della televisione di stato che, come è noto, non ha mai trasmesso le immagini dell'esodo e delle atroci sofferenze dei kosovari.
Milosevic ha dichiarato ad una televisione americana ciò di cui si sono autoconvinti anche migliaia di serbi: "I kosovari fuggono per l'effetto delle bombe americane". La Nato dunque è il vero responsabile dell'esodo dei kosovari. E "perché non si può avere pietà di loro?", osservano cinicamente molti autorevoli commentatori di Belgrado. "Perché sono stretti nella tenaglia dell'Uck, il movimento terrorista che li condiziona e che li avrebbe fatti diventare una minaccia per la sopravvivenza della nazione serba. Qualora avessero ottenuto l'autonomia, avrebbero sicuramente scacciato la minoranza serba dal Kosovo.

Nel famigerato Memorandum dell'Accademia serba, che nel 1986 ha elaborato il progetto della Grande Serbia, si sosteneva che, se il popolo serbo non avesse rialzato la testa, sarebbe diventato egli stesso vittima di un nuovo genocidio.
Le guerre precedenti in Croazia ed in Bosnia sono state giustificate con l'idea che i serbi potevano cadere vittime di etnie nemiche. E così la pulizia etnica non ha mai fatto vergognare nessuno ed è stata considerata una forma necessaria di autodifesa.
Come ha osservato il filosofo Tsvetan Todorov in un bellissimo saggio sugli abusi della memoria, il male fatto agli altri è stato giustificato con le sofferenze patite dai serbi nel corso della loro storia. La memoria di un passato di vittime è stata usata per non avere rimorsi di fronte ai crimini dell'oggi, fino al punto che la pesante sconfitta subita dai serbi in Kosovo per opera dei musulmani nel lontanissimo 1389 è diventata, nella volgare mitologia di Milosevic e dello scrittore Dobrica Cosic, una sorta di legittimazione per la "guerra" ai kosovari. E' come se gli israeliani per ricordare Auschwitz, espellessero e massacrassero tutti i palestinesi della Cisgiordania
Il meccanismo della coscienza e della vergogna sembra dunque avere tragicamente fallito nella Serbia di fine secolo. Non c'é stato nessun politico che prima dell'intervento della Nato abbia avuto il coraggio di fare quanto Dimitar Peshev, un altro uomo dei Balcani, fece nel 1943 in Bulgaria.
Gli alleati, come forse oggi ripeterebbe l'ambasciatore tedesco a Sofia, hanno ritenuto che per "convincere" Milosevic dovevano contare sulla paura delle bombe, piuttosto che sulla paura della coscienza.

Eppure la questione della vergogna rimane tutt'ora a Belgrado un problema di stringente attualità.
Non si può pensare che centinaia di migliaia di kosovari ritornino un giorno nella loro terra esclusivamente sull'onda di una sconfitta della Serbia e contando solamente sulla protezione militare di carri armati della Nato o sui soldati dell'ONU.
Se non ci saranno politici, intellettuali, uomini comuni che finalmente prenderanno coscienza del male fatto dal loro governo e si vergogneranno della pulizia etnica, migliaia di kosovari preferiranno la strada dell'esilio, piuttosto che il ritorno in una terra popolata da coscienze sorde ed ostili.
Sarebbe stato possibile il ritorno di migliaia di ebrei nella Germania odierna, se il popolo tedesco non si fosse lacerato, non avesse fatto i conti con il proprio passato, non avesse attraversato una purificazione morale? Le più efficienti basi militari della Nato non avrebbero mai convinto un solo ebreo a ritornare a vivere in Germania o persino a compiervi un viaggio turistico se non avesse potuto ascoltare la voce della vergogna dei tedeschi.
La reazione di un profugo kosovaro non sarà domani diversa da quella di un sopravvissuto ebreo.

Gabriele Nissim

 
Una scultura di Alberto De Braud Milano, aprile 1999



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