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Articoli sul libro "L'uomo che fermò Hitler"


la Repubblica, 16 aprile 1999


Storia di un genocidio
Le cifre parlano di due milioni di deportati: sopravvissero solo in cinquecentomila. Ecco perché su di loro scese l'oblio

di Umberto Galimberti


"Se è vero che senza oblio il mondo non progredisce, è anche vero che senza memoria storica diviene peggiore". Con questa frase Pietro Kuciukian chiude il suo ultimo libro: Dispersi. Viaggio fra le comunità armene nel mondo (Guerini e Associati, Milano 1999, pagg. 178, lire 28.000). Pietro Kuciukian è un medico chirurgo milanese, figlio di uno scampato al genocidio degli armeni del 1915, che dopo il terremoto del 1988 ha aperto in Armenia un ambulatorio medico a Spitak e due scuole a Stepanavan. Ultimamente ha girato con una troupe della Rai un documentario (che la Rai, chissà perché, non ha mai trasmesso) in Armenia e in Siria, sulle orme dell'ufficiale tedesco At Wegner, testimone del genocidio degli Armeni.

E di testimonianze ne abbiamo bisogno se solo pensiamo che il genocidio del 1915 di un milione e mezzo di armeni, con cui si è aperto il nostro secolo, è stato riconosciuto dalla Comunità Europea solo nel 1987 e con qualche resistenza dal mondo ebraico, come testimonia il professore ebreo-israeliano Yair Auron nel suo libro: La banalità dell'indifferenza. L'atteggiamento dell'Yishuv e del movimento sionista verso il genocidio armeno (Dvir Publishing House, Tel Aviv, 1997). Auron ritiene che lo Stato d'Israele, per interessi politici, considerava e considera la Turchia come suo alleato naturale contro i movimenti arabi, e perciò, al pari dell'Europa e dell'America non riteneva e non ritiene opportuno sollevare troppe obiezioni sul trattamento che la Turchia ha riservato e riserva agli armeni che avrebbero dovuto diventare i "turchi della campagna", come si tenta di far diventare oggi i curdi "i turchi della montagna".

Enclave cristiana tra popolazioni turcofone (Turchi, Atzeri, Turkemeni, Kazaki, Tatari, Uzbeki, Kirghisi), gli armeni si presentano come una popolazione non assimilabile e perciò nel 1915 si procede con l'eliminazione dei maschi attraverso un obbligo di leva che per i non musulmani va dai sedici ai sessantacinque anni. Una volta inquadrati nell' esercito ottomano si può passarli per le armi, dopo averli sfruttati nei campi di lavoro forzato. Subito dopo tocca ai notabili, ai vescovi e ai preti armeni. Le abitazioni, le scuole, le chiese, i conventi, i collegi, gli alberghi armeni vengono distrutti o requisiti. La popolazione rimasta, donne, vecchi, bambini e malati viene deportata verso destinazione ignota con l'intenzione di eliminarla. Lungo la strada si cerca di fiaccare la determinazione delle donne, attraverso lo stupro delle ragazze e delle giovani spose, le bambine e i bambini vengono usati quali schiavi o concubini delle famiglie che li adottano, li acquistano o li rapiscono. I pochi sopravvissuti alle epidemie e ai massacri dell'Organizzazione Speciale e delle bande cecene e circasse, muoiono nel deserto mesopotamico di Der es Zor. Le cifre parlano di due milioni di deportati, un milione e mezzo di vittime, cinquecentomila sopravvissuti. Molti sono stati salvati dagli arabi musulmani, dai curdi e dai beduini di Siria.

Il misconoscimento di questo genocidio, con cui si è aperto il nostro secolo, e il suo rapido oblio hanno ribadito quella legge che regola la storia dove "ogni amnesia è in un certo senso un' amnistia". E questo perché la rimozione degli eventi tragici è una porta spalancata sulla loro possibile ripetizione, come puntualmente si è verificato nella seconda guerra mondiale con ebrei, zingari e omosessuali. E poi di seguito in Estremo Oriente, quindi nell'Africa centrale, e ieri e oggi nella martoriata Jugoslavia, dove etnie diverse, abituate da secoli a convivere anche prima dell'avvento del comunismo, esplodono a colpi di pulizia etnica, qualcuna propagandata, qualcun' altra non meno pesante sottaciuta, sotto lo sguardo non innocente delle potenze occidentali, le quali, se vogliono rivendicare a tutti i costi la loro innocenza, devono comunque ammettere la loro superficialità e imprevidenza. In pratica o stupide a dispetto delle loro bombe intelligenti, o neanche tanto nascostamente interessate. Le ragioni umanitarie vengono dopo, ma davvero molto dopo, e tanto per non scambiare le cause con gli effetti, è difficile non arrivare alla conclusione che se è vero che i bombardamenti delle potenze occidentali hanno accelerato la pulizia etnica dei poveri kosovari di etnia albanese, allora o i bombardamenti Nato hanno fallito lo scopo, o avevano un altro scopo.

Il guardiano del faro di Jaffa, che resiste tra le quattro mura di quell'edificio ormai in disuso, anche se il porto è stato chiuso fin dal 1964, anche se la luce del faro è stata spenta per sempre, è l' immagine che l'ebreo Gabriele Nissim, nella sua bellissima introduzione al libro di Kuciukian, adotta come simbolo del ruolo che la memoria può svolgere di fronte a questi eventi, dove "il terribile è già accaduto" e non ieri, ma da un secolo almeno.

Scrive infatti Gabriele Nissim che: "Ci possono essere due differenti approcci alla memoria: il primo è di tipo letterale, dove si guarda esclusivamente al passato e il dovere della memoria diventa una sorta di gabbia. Il secondo è di tipo esemplare. Si ricorda il passato con lo sguardo aperto alla contemporaneità e il ricordo del male radicale diventa una sorta di lente di ingrandimento per scrutare il tempo presente. Il guardiano del faro ha scelto questa seconda strada: ha alzato lo sguardo dal deserto di Mesopotamia, dove sono morti un milione e mezzo di armeni, ai nuovi deserti in cui ancora gli uomini cercano di spingere altri uomini".

E qui i discorsi di Pietro Kuciukian, e di Gabriele Nissim si incrociano con quelli svolti da Franco Ferrarotti in: Partire, Tornare. Viaggiatori e pellegrini alla fine del millennio (Donzelli, Roma, pagg. 160, lire 18.000), dove si dice che: "Rinunciare alla memoria equivale a mettere a repentaglio la propria identità e il senso della direzione del proprio auto-sviluppo. Ma altrettanto chiaramente vanno tenuti presenti i rischi che accompagnano necessariamente gli "abusi della memoria". Nessun dubbio che di fronte a determinati ricordi la memoria fatichi a tenere il passo, tenda a sopprimere oppure a sottilineare, da quell'ambiguo filtro selettivo che è. Il vero problema sembra consistere nell'alimentare la memoria e nello stesso tempo nel non farsene paralizzare o, peggio, nel non farne la premessa per la rappresaglia aggressiva e vendicativa". Nella guerra che in questi giorni si combatte e che tra un po' finirà nel quasi-oblio come ci è già finita la guerra in Bosnia, lo scontro è anche tra popoli di poca memoria come le potenze occidentali e popoli di grande memoria come i serbi. "Poca memoria" non è necessariamente un disvalore, può significare anche che, rinunciando alla memoria forte della propria identità di popolo, si favorisce la coabitazione, l'identità dei diversi, così come un eccesso di memoria può favorire l'isolamento e l'intolleranza.

 
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  E allora la guerra finirà come finirà, ma il conflitto tra i popoli della "grande" o della "poca" memoria non finirà sotto le bombe, perché siamo solo all' alba della sua esplosione. Non si può infatti non rendersi conto che, a partire dall'Occidente, nell'età della tecnica il mondo si evolve nella direzione di una più grande omogeneità e uniformità che mette in crisi le identità e le appartenenze tradizionali. Si tratta di vedere se questa crisi delle identità culturali avviene nella forma dell'indifferenziato stare insieme cementato esclusivamente da interessi economici, come sembra avvenire in America e sempre più anche in Europa, o avviene nella forma dell'elaborazione di co-tradizioni culturali che si mescolano non per cancellarsi, ma per arricchirsi nel rispetto delle differenze.

Se riconosciamo questo problema come il maggior problema che questa guerra ci fa esplosivamente conoscere, non dimentichiamolo immediatamente ma partiamo da qui per imparare un corretto uso della memoria che, quando è troppo "forte" produce intolleranza e isolamento, e quando è troppo "debole" come da noi, produce quella progressiva perdita di identità e di radici che innesca processi antropologicamente degradanti che sono l'omogeneità indifferenziata e il conformismo.

In questo modo la varietà e le differenze tra gli uomini cedono il passo all'uniformità e aprono la strada non al cosmopolitismo che afferma la comunità umana al di sopra degli Stati-nazione, ma al cosmopolitismo anonimo e impersonale che, avendo rimosso identità e radici, non capisce nulla di coloro che ancora le rivendicano, per non perdersi in quel sottile e pervasivo nichilismo che è, come sempre più da noi, l'indifferenziato culturale.


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