Dimitar Peshev

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Articoli sul libro "L'uomo che fermò Hitler"


la Stampa, 16 novembre 1998


I banali buoni del secolo lungo

di Enzo Bettiza


PER lo storico inglese Hobsbawm questo nostro secolo, che sta per chiudersi, è stato per eccellenza un "secolo breve". Egli lo comprime fra due date fatali, fra il 1914 che accende la prima guerra mondiale e il 1991 che segna il crollo dell'Unione Sovietica. Marxista convinto, e per niente pentito, l'autorevole studioso britannico fa coincidere, con soli tre anni di anticipo, la brevità del secolo con la lunga e di colpo troncata esistenza storica della Russia comunista. Insomma, per Hobsbawm, "l'era dei grandi cataclismi" sarebbe stata di fatto interamente ritmata sulla nascita, la crescita, l'espansione drammatica e infine il collasso indolore del "socialismo reale" creato da Lenin e sepolto da Gorbaciov.

Si tratta, con ogni evidenza, di una chiave di lettura del secolo estremamente ideologizzata, quasi tutta incentrata sulla durata del fenomeno comunista. Al limite, una simile lettura può darci l'impressione che per Hobsbawm la brevità, la periodizzazione contratta, investano in uno stesso momento il secolo ventesimo, il comunismo e la storia in quanto tale: come se con la fine dell'Urss fosse sopraggiunta anche la fine della storia del mondo.

SE, invece del comunismo, poniamo a paradigma negativo del secolo il genocidio, che accompagna tuttora come un'ombra sinistra le vicende di alcuni regimi postcomunisti, dovremo di colpo mutare date, ottiche, visioni, supposizioni e previsioni su una parabola centenaria che non tende a finire ma piuttosto a prolungarsi dal Novecento al Duemila. I comunisti russi e i nazisti tedeschi, in gara fra loro, furono senz'altro i maggiori artefici "industriali" delle novecentesche epidemie genocide; ma in realtà essi hanno avuto dei precursori "artigianali", degni di nota e di altrettanta riprovazione, nei popoli balcanici e nei turchi.

Il terrifico Novecento s'inizia infatti con le massicce rappresaglie etniche delle guerre balcaniche che vedono, di volta in volta, massacrarsi fra loro serbi, bulgari, macedoni, greci e turchi. Ma la vera data d'avvio del genocidio di massa, della "purificazione etnica" programmata a freddo non sul campo di battaglia, ma contro inermi popolazioni civili, è il 1915: anno in cui i burocrati ottomani organizzano lo sterminio di centinaia di migliaia di armeni cristiani in Anatolia e nel Medio Oriente. In quest'ottica sarà il 1915, non il 1914 di Hobsbawm, la prima data fatidica di un secolo tutt'altro che "breve": anzi lungo, lunghissimo, tuttora in pieno e sanguinario corso dal Caucaso al Kosovo.

 
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  La storia del Novecento è, purtroppo e soprattutto, la storia di un genocidio infinito come infinita è la casistica che ne costella le tappe assassine. Gli scenari muteranno. Ma non muteranno la quantità e il senso dei massacri sempre perpetrati da burocrazie teocratiche o ideocratiche contro specifici gruppi razziali, religiosi, sociali. Nei deserti mediorientali soccomberà una parte corposa della nazione armena; nelle campagne ucraine e nei primi gulag leninisti periranno milioni di contadini; nei lager e crematori nazisti bruceranno i cadaveri di milioni di ebrei; altri milioni di contadini moriranno per eccidio e per carestie programmate nella Cina di Mao; gl'italiani dell'Istria finiranno nelle foibe di Tito; nelle foreste e nelle paludi cambogiane Pol Pot sterminerà un terzo del proprio popolo; i russi postcomunisti metteranno a ferro e fuoco la Cecenia; Karadzic, insufflato da Milosevic, decimerà i musulmani bosniaci facendo rinascere lager nazistalinisti di morte e di fame; Milosevic infine aggredità le maggioranze albanesi del Kosovo con lo scopo di sostituirle con nuove maggioranze serbe.

Col genocidio ininterrotto, non termina ma continua la durata del secolo più colmo d'orrore che la storia abbia mai registrato. Ecco perché m'è sembrato estremamente significativo che un ebreo anomalo come Gabriele Nissim, che non crede nel monopolio ebraico dell'Olocausto, abbia voluto presentare a Milano il suo ultimo libro insieme con lo studioso armeno Levan Zekyan. Per Nissim, revisionista paradossale, politically molto uncorrect, non esistono olocausti di prima e di seconda classe, non esistono differenze tra nobili giustizieri che uccidono a fin di bene e ignobili massacratori che sopprimono a fin di male, così come non esistono "giusti" e "angeli custodi" a senso unico, provenienti tutti da sinistra e mai da destra.

La sua ultima documentatissima fatica biografica, edita da Mondadori col titolo "L'Uomo che fermò Hitler", è dedicata per l'appunto all'eccezionale vicenda umana di un eminente uomo di destra bulgaro, un moderato filonazista, Dimitar Peshev, vicepresidente del Parlamento di Sofia al tempo in cui la Bulgaria era alleata della Germania hitleriana. Questo dimenticato Peshev, estromesso per volontà comunista dalla memoria storica, aveva compiuto, come scrive Nissim, "l'azione più giusta che un uomo del XX secolo potesse compiere": aveva sfidato Hitler salvando all'ultimo minuto 50 mila ebrei bulgari, cioè l'intera comunità israelita di quel Paese, già avviati ai vagoni che avrebbero dovuto trasportarli ad Auschwitz. Non un eroe melodrammatico, non un Arcangelo marxista. Semplicemente un conservatore onesto, un rappresentante della "banalità del bene" che con la sua azione umanitaria si contrappone ai gelidi rappresentanti della "banalità del male".

L'ARMENO Zekyan ha completato Nissim evocando la figura di un Peshev ottomano, Naim Bey, responsabile per un certo tempo del campo di Meskene dove i turchi assiepavano gli armeni prima di spedirli alla morte. Molti furono salvati da Naim, anche lui tipico "banale" bel bene, giocatore inveterato, bevitore, uomo corruttibile. Non uno spirito retto e politico come Peshev, ma un mediocre pieno di pecche e di vizi. Tutt'e due però appartenenti alla rara schiera dei giusti modesti, obliati, incompresi e spesso egualmente calunniati sia dalle vittime che avevano tratto in salvo, sia dai carnefici che avevano ingannato.

Il secolo cosiddetto "breve" è, come si vede, più ricco di sorprese e contraddizioni di quante generalmente ne rivelino le ricostruzioni unilaterali degli storici convenzionali. Il grande Hobsbawm taglia corto, recide, comprime. I più umili Nissim e Zekyan invece scavano, penetrano, allungano lo sguardo, dando al secolo, nella banalità binaria del male e del bene, una durata ancora lontana dal capolinea.


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