Dimitar Peshev

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Articoli sul libro "L'uomo che fermò Hitler"


Corriere della Sera, 24 settembre 1998


Il nazionalista che salvò gli ebrei
La lista di Peshev. Uno Schindler bulgaro
In occasione della pubblicazione del libro di Gabriele Nissim, "L'uomo che fermò Hitler", questa sera alle 21 al teatro Franco Parenti di Milano l'attore Moni Ovadia presenta lo spettacolo "Parole e musica per non dimenticare. Letture, canzoni e cori in memoria di Dimitar Peshev". L'ingresso è libero

di Arrigo Levi


La storia dell'"uomo che fermò Hitler", salvando i 48 mila ebrei bulgari dalla deportazione, quando già i convogli per Auschwitz erano pronti sui binari delle stazioni, sorprende e colpisce per tante ragioni. Prima di tutto, perché la verità sul salvataggio degli ebrei bulgari nel marzo '43, ad opera soprattutto di un politico nazionalista e filo-tedesco, Dimitar Peshev, allora vicepresidente del Parlamento, poi perseguitato dal regime comunista, è emersa solo da pochissimo tempo, grazie alle ricerche di Gabriele Nissim (L'uomo che fermò Hitler, Mondadori, lire 35.000). Soltanto ora sappiamo come accadde il "miracolo" del salvataggio di quella comunità, essendo falso il mito che a salvarla fossero stati i comunisti, o re Boris: che si comportò ambiguamente, anche se alla fine trovò anch'egli il coraggio di dire di no a Hitler sulla consegna degli ebrei.

Le ricerche di Nissim hanno rivelato agli stessi bulgari un pezzo importante del loro passato, accuratamente nascosto dai comunisti. La storia di come un uomo politico di spicco del regime autoritario che sotto la guida di re Boris si era alleato con Hitler per riconquistare i "territori perduti" della Macedonia e della Tracia (Peshev aveva votato anche a favore delle dure leggi razziali, simili a quelle fasciste del '38, emanate nel gennaio 1941 per "ripagare" il nazismo del favore ricevuto), si trasformasse all'improvviso nel salvatore degli ebrei, ha risvolti psicologici e morali sconcertanti. Peshev, un uomo retto, aveva molti amici ebrei: da questi, e da altri amici bulgari non ebrei della sua città, Kjustendil, apprese con suo grande stupore, l'8 marzo del '43, che, senza che ne fosse stata data alcuna notizia, si sarebbe iniziata all'indomani la deportazione di 20 mila ebrei: 12 mila provenienti dai territori annessi della Tracia e della Macedonia, e 8 mila dalla "vecchia" Bulgaria. Sarebbe stato questo solo il primo passo per la liquidazione dell'intera comunità ebraica, come furono liquidati, pochi mesi dopo, nel territorio della Repubblica fascista, circa un quarto degli ebrei italiani.

Quando Peshev seppe ciò che stava per accadere ne fu come folgorato, e decise di fermare l'operazione. Di fronte ai dinieghi o all'indifferenza del Governo e della Corte, ottenne la firma di 42 deputati della stessa maggioranza filotedesca ad una lettera che dichiarava "inammissibile" la deportazione, definita "un'indegna macchia di infamia sull'onore della Bulgaria". Accadde un miracolo: il primo ministro Filov, pur furibondo per la rivelazione di Peshev, e lo stesso re Boris, che fino allora aveva "voltato la testa dall'altra parte", si risolsero a bloccare il piano preparato per compiacere Hitler. Lo stesso Peshev fu consapevole di avere avuto una sorta di illuminazione spirituale, riuscendo a non rendersi complice della "banalità del male" di cui poi parlerà Hannah Arendt. La sua "conversione" fu contagiosa: alla protesta contro la deportazione si associarono molti intellettuali, e la Chiesa ortodossa; il metropolita di Sofia Stefan, durante un Te Deum, condannò la persecuzione, poi ammonì il Re che "Dio lo avrebbe giudicato per le sue azioni" e gli chiese di abolire le leggi antiebraiche: fu un gesto determinante per salvare gli ebrei bulgari. Si sarebbero salvati gli ebrei italiani se Pio XII avesse fatto lo stesso?

Il governo di Re Boris assistette però passivamente alla deportazione dei 12 mila ebrei di Macedonia, di Tracia e di Piro, che vennero lasciati andare alla morte, pur attraversando i loro convogli per Auschwitz la Bulgaria: il Re si limitò a ordinare che "durante il tragitto in territorio bulgaro gli ebrei fossero trattati bene". E non si oppose al fatto che Peshev venisse punito per il suo gesto di aperta ribellione ed espulso dalla carica.

 
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  All'arrivo dei russi e all'avvento del nuovo, durissimo regime comunista, a cui non volle piegarsi, non venne riconosciuto quanto aveva fatto per "fermare Hitler". Venne invece processato e condannato per il suo passato politico: lo salvò dalla condanna a morte il fatto che negli anni Trenta, ministro della Giustizia, avesse fatto graziare un esponente filocomunista. Visse, dopo il carcere, in povertà e solitudine. Anche il metropolita Stefan fu confinato in un remoto villaggio fino alla morte. Ma Peshev potè raccontare la sua storia a una archivista dello stesso regime; tutti i documenti sono stati ora ritrovati da Nissim.

Un'ultima riflessione. Gli italiani, come i bulgari, non erano antisemiti; e al coraggio di migliaia di italiani, compresi molti religiosi, si dovette la salvezza di moltissimi ebrei italiani. Ma il confronto fra Stefan e Pio XII è a tutto vantaggio del bulgaro; lo è anche il confronto fra intellettuali e politici bulgari e italiani.

Quarantadue deputati bulgari affiancarono Peshev. In Italia non un solo dirigente fascista ebbe il coraggio di opporsi alle leggi razziali, avallate dal Re; e nemmeno una voce non fascista si alzò contro di esse, al Senato o altrove. Poi, i "giusti" italiani furono tanti.


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