Dimitar Peshev

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Articoli sul libro "L'uomo che fermò Hitler"


Igaion, 20 febbraio 1999


Storia dell'uomo che salvò da Hitler la comunità ebraica di Bulgaria

di Luciano Tas


Vicepresidente del Parlamento bulgaro, con la sua ostinata battaglia personale e quasi solitaria (ma quanta ammirazione per il Metropolita ortodosso di Sofia) riuscì a fermare la deportazione degli ebrei bulgari quando i carri ferroviari erano già pronti agli scali delle città e dei paesi di Bulgaria: si chiamava Dimitar Peshev e fu dimenticato per ordine dei nuovi occupanti sovietici.

Il 24 marzo del 1943 si festeggiava in Bulgaria la festa dei santi Cirillo e Metodio, molto popolari in un paese cristiano-ortodosso (anche perché "inventarono" i caratteri dell'alfabeto cirillico).

La Bulgaria era alleata della Germania, ma non era entrata in guerra al suo fianco (né vi entrerà successivamente). Le truppe tedesche nel 1941 avevano chiesto (e ovviamente ottenuto da re Boris) di attraversare il paese per correre in Grecia a salvare dal disastro l'esercito italiano, improvvidamente gettato allo sbaraglio da Mussolini. Si erano anche accampate in Bulgaria, ma sempre da ospiti educati, mai da occupanti.

Il popolo li aveva anzi acclamati perché Hitler gli aveva restituito la Macedonia. In cambio una dittatura non implacabile ma ferma teneva il paese sotto controllo.

Per compiacere Hitler il governo bulgaro e re Boris che deteneva il potere decisionale, emanarono leggi antiebraiche, poco e niente sentite dalla popolazione che non aveva mai sofferto di antisemitismo. Per forza, la Bulgaria era composta da tante di quelle minoranze che non poteva permettersi di discriminarne o perseguitarne una.

Quelle leggi vennero applicate in modo abbastanza approssimativo, i rapporti della popolazione con gli ebrei non mutarono, anche se gli ebrei stessi, e si capisce, tanto contenti non erano.

 
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  Ma ai primi del 1943 la Germania chiese alla Bulgaria di consegnarle 20.000 ebrei. Il governo di Sofia gliene fornì "solo" 12.000, quelli che abitavano la Macedonia, perché non erano considerati bulgari. Per gli altri 8.000 si dovette pensare ai sudditi ebrei di Boris. Per gli altri, tutti i 50.000 ebrei bulgari, ci sarebbe stato il secondo e ultimo atto.

Le voci si sparsero subito. Chi letteralmente impedì la deportazione, pagandone poi un prezzo altissimo, fu un uomo, il vicepresidente del Parlamento, Dimitar Peshev, amico fraterno di molto ebrei e che pure aveva votato a favore delle leggi antiebraiche, che si pose tra gli ebrei e il governo, tra gli ebrei e il re, tra gli ebrei e i tedeschi.

Alla fine vinse lui e gli ebrei bulgari non furono deportati.

Il 24 marzo 1943, dunque, immediata vigilia della deportazione, con i vagoni pronti agli scali ferroviari.

Approfittando della partecipazione di folla alla festa per Cirillo e Metodio, il rabbino Daniel Tzion "pensò che fosse l'occasione giusta per rendere pubblico il dramma che gli ebrei bulgari stavano vivendo. Si radunò con alcune centinaia di persone davanti alla sinagoga, dove tenne un comizio di protesta e invitò il corteo a raggiungere (...) il palazzo reale".

Furono tutti arrestati - più di 400 persone - mentre il rabbino veniva rinchiuso in un campo d'internamento.

Ma ecco che "a Sofia accadde ciò che gli ebrei di Roma avevano invano atteso durante la retata nel ghetto il 16 ottobre".

Il "prestigioso metropolita Stefan" si recò a palazzo reale e intimò al capo della cancelleria di andare dal re e di fargli "sospendere gli ordini di deportazione degli ebrei e di consegnargli una lettera personale in cui lo ammoniva a non perseguitare gli ebrei. Dio, era scritto, lo avrebbe giudicato per le sue azioni".

Ma non si limitò a questo.

"Subito dopo andò a celebrare il Te Deum sul sagrato della cattedrale, in piazza Aleksandar Nevski. Qui, nella cornice della folla festante, prese pubblicamente la difesa degli ebrei...".

Infine il metropolita si recò ancora a protestare dal primodal primo ministro e infine scrisse un memorandum al re. Quindi “nascose a casa sua il rabbino capo Hananel, ricercato dalla polizia (...) Tutto questo gli costò gli arresti domiciliari, ma ormai la scintilla della vergogna, che Peshev aveva acceso il 9 marzo e che la Chiesa ortodossa aveva clamorosamente raccolto il 24, riusciva a condizionare il comportamento di tutto il gruppo dirigente e in primo luogo re Boris".

Si sa come andò a finire. Un cambiamento tardivo di governo e la dichiarazione bulgara di guerra alla Germania ormai in rotta non impedì che le truppe sovietiche invadessero - loro sì - la Bulgaria, accolte, è vero, dallo stesso entusiasmo popolare riservato pochi anni prima a quelle tedesche.

Il governo comunista subito instaurato fece quello che avrebbero fatto tutti i governi dei paesi europei "assegnati" dagli Alleati all'Unione Sovietica: processi sommari, migliaia di esecuzioni, affollamento dei campi di concentramento.

Per quanto riguarda gli ebrei, solo un pugno di loro aderì al regime, ma la politica comunista, sulla falsariga di quella sovietica, fu nettamente antisemita e "antisionista" tra il 1945 e il 1948. In quell'anno però, sempre seguendo fedelmente la politica di Mosca, ecco la conversione: appoggiare Israele appena nato. Si aprì così una relativamente breve finestra che consentì, con l'incoraggiamento del governo e l'imbarazzo degli ebrei comunisti, l'esodo quasi totale della comunità ebraica bulgara. L'incoraggiamento ad emigrare in Israele mirava a creare nello Stato ebraico una "quinta colonna" bulgara (e quindi dell'Unione Sovietica, di cui Sofia ambiva a diventare una repubblica come l'Ucraina o il Kazakistan).

Quanto a Dimitar Peshev, "L'uomo che fermò Hitler", come s'intitola il bel libro di Gabriele Nissim che ne rivela la vicenda (Mondadori editore, pp. 327, L. 35.000), poté dirsi fortunato di non avere fatto la fine dei rappresentanti del vecchio regime, anche quelli coerentemente antinazisti ma non comunisti o non abbastanza pronti a cambiare cavallo in corsa, e di essere alla fine dimenticato. Una fortuna perché salvò la pelle, ma anche una ingiustizia perché il suo grande e quasi esclusivo merito non di avere "fermato Hitler", che è una forzatura del titolo, ma di avere impedito la deportazione di 50.000 ebrei bulgari con intuibili gravissimi rischi personali, fu praticamente rimosso e cancellato dalla storia bulgara che accreditò invece il merito, durante gli anni della dittatura, a un partito comunista che invece non ne ebbe parte alcuna.

Il libro di Nissim (si cui di ricorderà il precedente "Ebrei invisibili", scritto a quattro mani con Gabriele Eschenazi) è affascinante perché porge all'attenzione del lettore una pagina di storia contemporanea quasi ignorata dai più, e non solo da noi, con una scrittura piana e coinvolgente che fa del libro quasi un thriller (e quanti thriller tragicamente veri ci hanno proposto in Europa i tre decenni che separano la rivoluzione bolscevica in Russia dalla fine della seconda guerra mondiale, passando per i dodici anni di Hitler!) da leggere, come si dice, tutto d'un fiato.

Una considerazione, che non diminuisce affatto l'attento lavoro di Nissim perché non riguarda la eccellente forma, s'impone però sulla sostanza.

È vero che Dimitar Peshev impedì la deportazione degli ebrei bulgari, ma perché mai, lui stesso e i parlamentari a lui vicini, accettarono di firmare le leggi antiebraiche in una Bulgaria, va ricordato, che era riuscita sempre a salvaguardare la propria neutralità e non conobbe poi la presenza tedesca se non dietro pur riluttante invito?

Non bastava a Sofia la sua politica filonazista e l'oggettivo aiuto dato a Hitler durante la guerra? C'era proprio bisogno di adottare provvedimenti che alla Germania furono certamente graditi, ma che non sollecitò mai?

Sorge automaticamente al proposito il pensiero della Finlandia che, pur combattendo a fianco della Germania contro una Unione Sovietica che in precedenza l'aveva proditoriamente aggredita, non pensò mai neppure per un momento di perseguitare o soltanto vessare in qualche modo i suoi cittadini ebrei. Eppure erano presenti nel paese truppe tedesche, eppure il nemico era comune. E non risulta che Hitler abbia sollecitato Helsinki ad adottare misure antiebraiche, così come non sollecitò Sofia né Roma, quando ancora l'Italia godeva della sua sovranità, prima cioè dell'invasione tedesca.

È questa riserva che impedisce di vedere in Dimitar Peshev, morto poi nel suo letto in Bulgaria dopo decenni di dignitoso silenzio, un Giusto tra le Nazioni, anche se è doveroso rivalutarne la figura e rispettarne un coraggio che, forse tardivo, pochi comunque hanno avuto.


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