la storia   Dimitar Peshev  

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Peshev era un uomo che, come tanti, si era lasciato affascinare dagli esperimenti totalitari nell'Europa del nostro secolo. Era un democratico, ma si era illuso che un regime autoritario senza partiti potesse risolvere il problema della corruzione e del degrado della politica. Era diventato fautore dell'alleanza con la Germania nazista, attratto non tanto dalla figura di Hitler, ma dall'idea che la Germania potesse ridare al suo paese i territori "ingiustamente" perduti dopo le disgraziate guerre balcaniche degli anni 1912-13. Per questo non si fece troppe remore quando i tedeschi chiesero al suo paese di approvare le leggi razziali.

IL GIORNO IN CUI
si tenne la discussione in parlamento, Peshev presiedette la seduta in qualità di vicepresidente. Pensava in quel momento che quelle misure fossero poca cosa e che tutto si sarebbe risolto in una farsa.
Non immaginò le vere conseguenze: che i nazisti, di lì a poco, avrebbero richiesto la consegna di tutti gli ebrei.
 
Peshev
e il re
 
Peshev e il re

 
.   Peshev continuò normalmente la sua vita aristocratica nell'ambiente altolocato della classe dirigente finché, una domenica mattina, all'improvviso, ricevette la visita disperata di un amico che non vedeva da anni: era un suo vecchio compagno di scuola ebreo proveniente da Kjustendil, la ridente cittadina al confine con la Macedonia dove Peshev aveva vissuto fino all'adolescenza.
Lo informò che il governo, in accordo coi tedeschi, stava preparando per il giorno dopo la deportazione segreta della minoranza ebraica. I treni erano già stati predisposti nelle stazioni. La notte successiva gli ebrei dovevano essere rastrellati e caricati sui vagoni, che sarebbero partiti la mattina dopo per la Polonia (la destinazione, allora sconosciuta, era Auschwitz).
 

Era il 7 marzo del 1943. Tutto era stato deciso in gran segreto per non mettere in allarme la popolazione. Peshev, in effetti, aveva sentito circolare strane voci, ma come tutti, allora, non se n'era preoccupato. Ora, di fronte a un amico che gli chiedeva di aiutarlo, ebbe come un sussulto, un risveglio della coscienza. Si scosse dal suo torpore e agì d'istinto, con l'idea, in un primo momento, non tanto di salvare un popolo, quanto di aiutare i suoi amici di Kjustendil.
Si precipitò in parlamento, radunò qualche altro deputato, piombò di sorpresa nell'ufficio del ministro degli interni Gabrovski e dopo uno scontro drammatico lo costrinse a revocare l'ordine della deportazione.
Poi telefonò personalmente a tutte le prefetture per verificare che il contrordine fosse stato rispettato.

 




Lettera
di protesta
.   Poiché in questo modo la deportazione era stata solo sospesa, Peshev decise di lanciare un'offensiva in parlamento. Si era reso conto che in gioco non c'era soltanto la vita di qualche amico, ma la salvezza dei cinquantamila ebrei bulgari. Non c'era un minuto da perdere: stese una lettera di protesta molto dura e raccolse le firme di una quarantina di deputati per chiedere al governo e al re di non commettere un crimine così grande, che avrebbe macchiato per sempre l'onore della Bulgaria.
Questo gesto di ribellione gli costò molto caro. Perse la carica in parlamento e visse con la spada di Damocle di essere consegnato ai tedeschi, qualora l'esito della guerra si fosse risolto a loro favore.
Ma raggiunse l'obiettivo: la sua denuncia ebbe un effetto dirompente, che nessuno si sarebbe aspettato.
Il re, sentendosi scoperto, fece marcia indietro: forse si vergognò di quanto stava permettendo e tutto il paese insorse a favore degli ebrei.

MORTO IL RE improvvisamente nell'agosto del 1943, Peshev riscoprì i valori democratici e si batté per un cambiamento politico del paese e per il riallineamento della Bulgaria con l'occidente.
Fece però il "grave errore" di denunciare pubblicamente in parlamento il comportamento dei partigiani, che stavano consegnando il paese ai russi.
Ciò gli costò molto caro al momento dell'occupazione della Bulgaria da parte dell'Armata Rossa.

 

Peshev fu processato con l'accusa di essere antisemita e antisovietico. Nel corso del processo, che viene ricostruito interamente nel libro, l'accusa arrivò a insinuare che avesse salvato gli ebrei in cambio di denaro. Fu categoricamente smentita dagli ebrei giunti appositamente da Kjustendil per difenderlo.
La corte era ugualmente intenzionata a condannarlo a morte, come fece con altri venti deputati che avevano firmato la sua lettera di protesta. Ci fu però un piccolo miracolo. Il suo difensore ebreo - che, per inciso, si chiama come mio padre, Joseph Nissim Yasharoff - estrasse il classico coniglio dal cilindro e ricordò alla corte che Peshev nel 1936, quand'era ministro della giustizia, aveva salvato dalla condanna a morte Damian Velchev, il nuovo ministro della guerra, autore del golpe comunista attuato con l'arrivo dell'Armata Rossa.

 
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  Peshev ebbe così solo 15 anni di carcere e dopo un anno fu rilasciato. Il gulag, subito dopo, gli fu risparmiato solo grazie all'intervento di un suo vicino di casa, responsabile della cellula comunista del quartiere, che Peshev aveva salvato a suo tempo dal licenziamento.
Dopo la guerra Peshev visse dimenticato da tutti. Gli ebrei, nel '49, lasciarono in massa la Bulgaria per trasferirsi in Israele. Negli anni '60, superate le difficoltà dell'emigrazione, iniziarono a inviare aiuti a chi li aveva salvati: Peshev ricevette stabilmente del denaro, e delle lettere che lo ringraziavano per la sua azione.
Gli fu proposto di recarsi in Israele, ma egli rifiutò: voleva prima essere riabilitato nel suo paese. Morì senza avere questa soddisfazione.


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