Dimitar Peshev

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Articoli sul libro "L'uomo che fermò Hitler"


Correre, gennaio 1999


Ha tolto dall'oblio Dimitar Peshev, il politico che oggi la Bulgaria riscopre eroe. È diventato il vero ambasciatore di Sofia per il mondo. Segni particolari: un grande amore per la corsa. A tu per tu con Gabriele Nissim

'Correre', gennaio '99

Alla ricerca della verità perduta

di Corrado Ori Tanzi


Diventare ambasciatore di un Paese straniero scrivendo un libro. Rimuovere la polvere dalla memoria di un intero popolo e ridare luce a un uomo di cui oggi quella stessa gente può andare giustamente orgogliosa. Gabriele Nissim, giornalista e saggista ha avuto per la Bulgaria l'effetto di una scarica adrenalinica tipica del runner che sente di star portare a termine qualcosa di veramente grande.

Il nome di Dimitar Pesev è oggi di nuovo pronunciabile e "L'uomo che fermò Hitler", il libro che ne racconta l'amara storia, ha imposto alle cronache il suo autore. Che anche su queste colonne deve trovare legittima accoglienza. "Amo lo sport praticato - mi dice Nissim - e nella mia attività fisica la corsa ha un ruolo centrale. D'inverno esco un paio di volte alla settimana, d'estate almeno tre. Quell'ora podistica è un patrimonio rigenerativo che non ha eguali, fonte di idee per la scrittura talvolta migliore anche della più silenziosa concentrazione al tavolino. Corro anche per un obiettivo, sia la preparazione per altre discipline, sia quella per affrontare bene una maratona".

Un meccanismo mentale per conoscersi meglio e distinguere il bianco dal nero più che uno sforzo fisico puramente sportivo. "Sì - precisa Nissim - ma attenzione a non considerarla una fuga dalla realtà. Quando diciamo che la corsa libera dallo stress della quotidianità non dobbiamo pensare a un mezzo che annulla il pensiero e anestetizza chi la pratica. Si tratta di un'occupazione che, almeno personalmente, riesce a dare forma a decisioni anche importanti, mi aiuta a trovare le risposte giuste a dubbi che mi porto dietro. È un momento di riflessione mentre è in moto la propria macchina corporea che ti dice: "Senti come sei vivo?". Ho sempre contestato chi la considera uno sforzo che abbrutisce. Al contrario, abbellisce la persona in tutti i sensi, è creativa. Quando esci per un "lungo" sai che quando tornerai a casa non sarai più quello di prima. Ma una persona migliore".

A Milano come a Londra, New York, Timbuctù? È questa l'universalità di uno sport che chiede soltanto un paio di scarpe e tanta strada? Già, la strada. Eppure è facile sentirsi frustrato se calati nel degrado, urbanistico di moltissimi centri del nostro Paese. "Ogni volta che viaggio porto con me l'occorrente per correre - mi risponde lui -. Che mi trovi in Cina o in Sudafrica, appena posso mi butto alla ricerca di qualche parco o di un percorso vicino a un fiume. Così ho fatto in Bulgaria, dove ho soggiornato durante la stesura del libro. A Sofia nonostante la temperatura rigida, avevo la possibilità di correre all'interno del palazzo presidenziale, tra i suoi meravigliosi giardini. Non c'è niente da fare, è uno strumento per conoscere luoghi e comportamenti umani. Amo, alla follia correre a New York. Meglio: amo alla follia correre la domenica mattina al Central Park attorno al Resevoir. Trovi un concentrato di persone così diverse che sintetizzano, l'intera America. Corre la nera grassa, il religioso con la sua papalina, il temerario a torso nudo in pieno inverno, quello con due occhiali spessi così: ti sembra, di essere stato catapultato all'interno di un film di Woody Allen e di recitare con tutti questi attori. Anni luce da Milano. Per carità, ognuno cerca il meglio di quello che c'è e io non mi lamento della cara e vecchia "Montagnetta", l'unico posto che dia la parvenza di natura in questa metropoli. Ma, ad esempio, perché non chiudere la strada dei Navigli e farne un sentiero per i podisti invece di lasciare indisturbata la via al degrado? Non vorrei fosse inutile chiedere un freno alla miopia degli amministratori e alla inciviltà dei cittadini".

Il libro che ha fermato l'oblio

E quante corse hanno ispirato "L'uomo che fermò Hitler". Due anni e mezzo di documentazione archivistica da topo di biblioteca e di scrittura per riparare a un odioso deficit di giustizia di cui la Storia si è resa protagonista nei confronti di Dimitar Pesev, il vicepresidente del Parlamento bulgaro filo nazista che nel 1943 riuscì a evitare la deportazione ad Auschwitz di 48.000 ebrei già pronti e impacchettati. Un atto che pagò amaramente con l'emarginazione dalla vita politica, attentati all'incolumità personale e l'infamante marchio di paria per aver sollevato le coscienze contro il genocidio di coloro che al tempo venivano considerati untermenschen (umanoidi, sotto uomini) sulla base di valutazioni razziali pseudoscientifiche che non facevano che dar corpo e voce a quell'ubriacatura ideologica chiamata nazionalsocialismo.

Un atto che, tuttavia, non lo salvo dal carcere duro, spogliazione dei beni e proscrizione perpetua dalla vita civile quando, dominante l'Armata Rossa, non volle sottomettersi a seconda ubriacatura ideologica che il mondo ha conosciuto col termine di comunismo.

"In fin dei conti mi sono occupato di uno sportivo - mi dice Nissim - Pesev era un'escursionista e uno sciatore convinto. I sovietici gli portarono via tutto, perfino l'attrezzatura sportiva".
Un uomo strano Dimitar Pesev; un uomo che pagò pesantemente e di persona ogni sua scelta. Non è accaduto spesso nella storia del Novecento. "La prima volta incalza Nissim - fu quando aderì al nazismo. O meglio: quando, come molti, pensò che, essendo la Bulgaria in preda di terroristi e populisti violenti, l'unica soluzione fosse la via autoritaria. Hitler giocava molto sui nazionalismi dell'Est e il suo gesto di restituire ai bulgari delle loro ex terre, come la Tracia e la Macedonia, li affascinò totalmente. Lui era il Messia che avrebbe riportato la felicità. Eppure Pesev non smise di pensare e si trovò spesso in contraddizione con quanto la Germania stava facendo. Fu posto di fronte alla tragedia della deportazione quando vide un suo caro amico ebreo chiedergli aiuto. Il particolare umano gli schiarì la consapevolezza politica e la sua idea alta di giustizia fece il resto".

Dall'amico al potere centrale: il ministero degli Interni, dove si decideva della vita e della morte. Telefonate, riunioni, un'azione fulminea diretta a spaventare il governo quando ormai il rastrellamento dei nuovi condannati era completato e i convogli pronti per la lunga marcia verso il campo di sterminio. Di più, la lettera firmata da 43 deputati della maggioranza e letta in Parlamento per creare un movimento di opinione che fermasse l'orrore. Quella lettera scritta da Pesev il 17 marzo 1943 era diventata il pensiero di tutta una Nazione. Ma fu anche l'inizio della sua personale fine. "Fu fatto
fuori politicamente - aggiunge Nissim - e i dirigenti fascisti non persero tempo a etichettarlo con l'ignominia del traditore. Lui, ex magistrato e avvocato, fu additato come la vergogna della Bulgaria intera. Poi vennero i russi e qui pagò una seconda volta. Lui non fu mai comunista e mai accettò di celebrare il Nuovo Verbo dell'umanità. Il comunismo in Bulgaria fu un vero e proprio golpe dell'Armata Rossa, non esistendo un consenso popolare come in Cecoslovacchia. I partigiani bulgari consegnarono il Paese a una dittatura straniera che impose un regime durissimo, spesso disumano che imponeva l'egualitarismo laddove viveva già la massima tolleranza verso le minoranze. Se si fosse dichiarato filocomunista avrebbe ricevuto allori e onori. Non lo fece mai. Pesev aveva capito che I'autoritarismo non dava nessuna risposta. Ci voleva la democrazia, l'allineamento con l'Occidente e non lo tacque".

"I comunisti si attribuirono il merito di aver salvato gli ebrei, lo imprigionarono per 15 anni e, una volta uscito, fu ridotto a vita vegetativa. Diventò una ex persona, dimenticata dagli stessi ebrei che aveva aiutato e pass6 l'ultima parte della sua vita a nascondersi dalla vita civile per non creare problemi alle sue due nipoti presso le quali viveva perché essere parente di un ex dirigente di uno Stato già filonazista era un peso gravoso. I comunisti gli avevano assassinato, la memoria. Una sola forma di resistenza gli rimaneva: la cura della persona. Il continuare a vestirsi con cura era un messaggio chiaro: esistono le esigenze dei singoli, non solo quelle della massa".

 
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  Pensare, capire e agire

Ed eccoci oggi a fare i conti con questo libro che, non fidatevi della fascetta che lo ricopre, non racconta I'epopea di un nuovo Oskar Schindler, l'industriale tedesco che evitò le docce col gas a molti ebrei pretendendoli nelle sue fabbriche, né disegna i contorni di un altro Giorgio Perlasca, il commerciante padovano che nel 1944 a Budapest riuscì a salvare dallo sterminio migliaia di figli d'Israele spacciandosi per console spagnolo ("Pesev agì direttamente dalla stanza dei bottoni. Quanti furono, i funzionari a dire "no" in faccia a Hitler?").

"C'è un antidoto al male estremo?", si chiese nella sua ricerca la filosofa Hannah Arendt. "Io penso - conclude Nissim - che un essere umano abbia sempre la possibilità di capire cosa e dove sia il male, soprattutto quando l'orrore è così alto. Pesev prima ha capito e poi ha agito." Mica poco se pensiamo che, nella storia di questo secolo, parola e azione spesso hanno camminato per strade diverse e quando si sono incontrate non si sono quasi mai riconosciute.

Ecco la testimonianza del libro di Nissim: la democrazia può sopravvivere solo se si combatte ogni concentrazione del potere e può entrare nei cromosomi di chi se ne serve soltanto se si cancella dal vocabolario del proprio agire il termine "ideologia". E che non c'è fede messianica nell'uomo forte, non esiste tribunale del popolo dentro cui poter affogare il travaglio di un uomo.


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