Dimitar Peshev

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Articoli sul libro "L'uomo che fermò Hitler"


Il Foglio, 2 ottobre 1998


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Vasilka Damjanova era la responsabile dell'Archivio storico di una Bulgaria comunista e orgogliosa che l'orologio di Sofia fosse perfettamente sincronizzato con quello di Mosca. Una "signora dolce e minuta" che un giorno della primavera del 1969 si presenta in una palazzina della capitale bulgara, in via Neofit Rilski, dove abita un personaggio "proibito", messo al bando dal regime di Todor Zivkov. Un avvocato di nome Dimitar Pesev.

Poco alla volta, durante due anni di visite pomeridiane, la funzionaria incaricata di mettere insieme memorie e documenti di un passato di cui non si poteva parlare (ma di cui si doveva avere traccia almeno negli archivi), quello della Bulgaria di re Boris III, scova una vicenda incredibile, che il saggista Gabriele Nissim ha raccontato nel suo ultimo libro.

"L'uomo che fermò Hitler" era appunto Dimitar Pesev. Un ex magistrato approdato prima alla libera professione e poi alla politica, dai modi aristocratici ma liberale sui generis, che amava la Rivoluzione francese ma soprattutto il proprio paese. Al punto che divenne un "fervente patriota", non un "fanatico nazionalista", "abbagliato" dal nazismo. E che nonostante tutto (il Patto Tripartito, le leggi razziali, il conseguente comportamento "pilatesco" di re e ministri) nel marzo '43 innescò una catena di reazioni che bloccò la deportazione di 48mila ebrei bulgari.

Sarebbe, però, fuorviante e riduttivo, appiattire la storia di Pesev sui suoi meriti, sebbene straordinari e mai riconosciuti sinora, di "giusto tra le nazioni". I primi capitoli del volume, incentrati sulla carriera di questo avvocato nato nel 1894, divenuto ministro e vicepresidente del Parlamento bulgaro, fanno riscoprire l'originale e turbolenta storia di un paese surgelato per cinquant'anni nel freezer sovietico. Le vicende politiche della Bulgaria nel periodo che va dalla Grande Guerra alla Germania nazista dimostrano che non si possono giudicare gli uomini e le istituzioni in base a schemi aprioristici. Le variabili "relative" giocano quasi sempre un ruolo fondamentale.

E nel caso del filonazista Pesev che salvò 48 mila ebrei, un caso che può apparire paradossale secondo le classiche categorie ideologiche, la variabile è rappresentata da un paese famoso per la sua tolleranza, dove non esisteva nessuna "pura razza buigara" ma una società multietnica; dove anche i democratici non ne potevano più della litigiosità dei partiti (ben 44) e giustificavano, anzi, desideravano "l'uomo forte"; dove le leggi razziali erano un prezzo da pagare per la politica estera (Adolf Hitler "rimarginò" le ferite subite dalla Bulgaria nelle guerre balcaniche, cioè la perdita di Macedonia, Tracia e Dobrugia) ma nessuno pensò mai di applicarle.

 
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  In questo contesto va compresa e letta la storia di Pesev, che non è la sola a essere emblematica nel libro di Nissim. Significativa, per altri aspetti, è anche la figura di Damjan Velcev, "il più grande specialista in colpi di Stato di tutti i Balcani", che pianificò sia il golpe fascista del '34, sia il putsch comunista dopo la sconfitta nazista. Con l'arrivo a Sofia dell'Armata Rossa, nel settembre '44, Pesev fu "spogliato" dei suoi meriti e delle sue proprietà, e condannato a 15 anni di carcere, poi amnistiati. La morte, avvenuta nel febbraio '73, gli risparmiò la versione ufficiale del Partito sulla salvezza degli ebrei bulgari: un film che incensava Zivkov (il leader politico più longevo dei paesi "fratelli") quale "angelo provvidenziale della storia".

L'autore solleva vari interrogativi sulle vicende affrontate. E non manca di polemizzare con la Chiesa cattolica circa la "vexata quæstio" su Pio XII e gli ebrei: nel '43 il metropolita ortodosso Stefan denunciò pubblicamente discriminazioni e persecuzioni, "fece ciò che papa Pio XII non ebbe mai il coraggio di fare".


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