Dimitar Peshev  

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L'ESEMPIO DI DIMITAR PESHEV
UN GIUSTO DEL VENTESIMO SECOLO



Il 20 febbraio di 25 anni fa si spegneva in via Neofit Rilski a Sofia un uomo di nome Dimitar Peshev. Aveva contribuito in modo determinante a salvare gli ebrei di una nazione intera, ma è stato quasi dimenticato da tutti.

Non esiste probabilmente in tutta la storia dell'Olocausto un caso simile al suo. Eppure il suo nome ancora oggi non è ricordato tra i Giusti del nostro secolo: la sua memoria è stata trascurata dagli stessi sopravvissuti.

Nel marzo del 1943 Dimitar Peshev aveva impedito, con la sua iniziativa coraggiosa, che i 48 mila ebrei bulgari venissero deportati, bloccando all'ultimo minuto la loro partenza per Auschwitz. Nonostante ciò, nel dopoguerra fu processato dai comunisti e perseguitato per il resto della sua vita. Del gesto che aveva compiuto, il più nobile che un uomo avrebbe potuto fare negli anni del nazismo, non si vantò mai, né cercò glorificazioni: si comportò sempre come una persona modesta.

Durante una delle lunghe giornate trascorse in solitudine nella casa della sorella, dove aveva dovuto rifugiarsi, perché i comunisti gli avevano sequestrato anche l'appartamento, raccontò alle nipoti Kichka, Kaludka e Milka, di non avere fatto niente di speciale. Il suo era stato soltanto un gesto umano, normale, che chiunque al suo posto avrebbe potuto compiere.

Il caso aveva voluto che toccasse proprio a lui agire, perchè era stato informato per primo. Lo avrebbe fatto per chiunque si fosse trovato in pericolo: in quel momento erano gli ebrei bulgari, ma poteva trattarsi di qualsiasi persona, senza distinzioni. Non si sentiva un eroe, ma soltanto un uomo con una coscienza.

La storia di Dimitar Peshev ha un significato universale. Aveva attraversato il male e lo aveva saputo riconoscere.La sua vita si potrebbe definirla una "favola moderna". Una favola che sarebbe molto piaciuta alla filosofa Hannah Arendt, che durante il processo ad Adolf Eichmann, a Gerusalemme nel 1961, si era posta il famoso interrogativo sulla "banalità del male": se era possibile, per uomini immersi nell'ambiente filonazista, riuscire a pensare per proprio conto e prendere quindi delle decisioni autonome, diverse, in grado di indirizzare la storia in un altro modo. Peshev ci era riuscito.

Era un uomo che si era lasciato affascinare, come tanti, dagli esperimenti totalitari nell'Europa del nostro secolo. Pur essendo un democratico, si era illuso che un regime autoritario senza partiti potesse risolvere il problema della corruzione e del degrado della politica. Divenne fautore dell'alleanza con la Germania nazista, attratto non tanto dalla figura di Hitler, ma dall'idea che il Terzo Reich potesse ridare al suo paese i territori "ingiustamente" perduti dopo le disgraziate guerre balcaniche degli anni 1912-13. Per questo non si fece troppe remore quando i tedeschi chiesero alla Bulgaria di approvare le leggi razziali.

Il giorno in cui si tenne la discussione in parlamento, Peshev presiedette la seduta in qualità di vicepresidente. Non si oppose, pensò che quelle misure fossero poca cosa e che tutto si sarebbe risolto in una farsa. Non immaginò le vere conseguenze: che i nazisti, di lì a poco, avrebbero richiesto la consegna di tutti gli ebrei.

Continuò normalmente la sua vita nell'ambiente altolocato della classe dirigente finché, una domenica mattina, all'improvviso, ricevette la visita disperata di Jako Baruch, un amico che non vedeva da molto tempo: era un suo vecchio compagno di scuola ebreo proveniente da Kjustendil, la ridente cittadina al confine con la Macedonia, in cui Peshev aveva vissuto fino all'adolescenza. Baruch lo informò che il governo, in accordo con i tedeschi, stava preparando per il giorno dopo la deportazione degli ebrei. I treni erano già stati predisposti nelle stazioni. La notte successiva li avrebbero rastrellati e caricati sui vagoni, che sarebbero partiti per la Polonia.

Era il 7 marzo 1943. Tutto era stato deciso in gran segreto per non mettere in allarme la popolazione. Peshev, in effetti, aveva sentito circolare strane voci, ma come tutti, allora, non se n'era preoccupato. Ora, di fronte ad un amico che gli chiedeva di aiutarlo, ebbe come un sussulto, un risveglio della coscienza. Si scosse dal suo torpore e agì d'istinto, con l'idea, in un primo momento, non tanto di salvare un popolo, quanto di aiutare i suoi amici di Kjustendil.

Intanto era arrivata a Sofia una delegazione proveniente dalla sua città: c'erano Vladimir Kurtev, Ivan Momchilov, Petar Mihalev e Assen Suichmesov. Peshev diede loro appuntamento nel pomeriggio in parlamento, dove, insieme anche ad altri deputati, piombò di sorpresa nell'ufficio del ministro degli interni Petar Gabrovski, dopo aver tentato invano di farsi ricevere dal primo ministro Bogdan Filov.

Al termine di uno scontro drammatico lo costrinse a revocare l'ordine della deportazione. Poi telefonò personalmente a tutte le prefetture per verificare che il contrordine fosse stato rispettato. Con un'iniziativa inaspettata, Peshev aveva colto di sorpresa il ministro degli interni. Con la sua determinazione di fare scoppiare uno scandalo pubblico non solo lo spaventò, fece anche emergere in lui la paura di perdere la reputazione di fronte ad una azione di cui nell'intimo si vergognava. "Mi impressionò quanto fosse confuso ed agitato.....Così mi convinsi che non avrebbe più attuato il suo piano."

Tuttavia in questo modo la deportazione era stata solo sospesa: per questo Peshev decise di lanciare un'offensiva in parlamento. Si era reso conto che in gioco non c'era soltanto la vita di qualche amico, ma la salvezza dell'intera comunità ebraica bulgara. Non c'era un minuto da perdere: stese una lettera di protesta firmata dai 42 deputati per chiedere al governo e al re di non commettere un crimine così grande, che avrebbe macchiato per sempre l'onore della Bulgaria.

Questo gesto di ribellione gli costò molto caro: il 25 marzo Bogdan Filov convocò la seduta del parlamento per neutralizzarlo. Cercò di presentarlo come un uomo senza onore che agiva per secondi fini. Poi, senza alcun dibattito, con l'imprimatur della stessa Corona, venne destituito dalla sua carica per avere preso posizione contro la deportazione degli ebrei bulgari, come ribadì espressamente il primo ministro nel suo diario, sapendo che, persa la carica di vicepresidente, Peshev avrebbe vissuto con l'incubo di essere consegnato ai tedeschi, qualora l'esito della guerra si fosse risolto a loro favore.

Ma quello che Filov non riuscì a prevedere fu l'effetto dirompente della denuncia fatta da Peshev. Il re, sentendosi scoperto, fece marcia indietro: forse si vergognò di quanto stava permettendo e tutto il paese, alla fine, insorse a favore degli ebrei.

Boris III in quei giorni aveva avuto la stessa reazione del ministro degli interni Gabrovski. Rotto l'incantesimo dell'inganno, si era vergognato di un comportamento che non trovava il consenso della popolazione e la cui gravità lui stesso aveva rimosso fino a quel momento, nascondendosi dietro l'operato del governo. L'iniziativa del vicepresidente della Sabranie, il parlamento bulgaro, gli aveva fatto vivere un malessere profondo: era combattuto tra la preoccupazione di suscitare sospetti nei tedeschi e la paura di vedersi infangare la reputazione di fronte al suo popolo e al mondo intero.

Peshev, con il suo gesto inaspettato, aveva richiamato tutti alle proprie responsabilità. I filonazisti dovevano dichiarare ad alta voce di essere favorevoli alla deportazione, gli intellettuali e la chiesa dovevano agire concretamente, gli opportunisti, a quel punto, dovevano scegliere. In questo modo Dimitar Peshev fu l'artefice del miracolo della salvezza degli ebrei bulgari.

Morto il re improvvisamente nell'agosto del 1943, Peshev riscoprì i valori democratici e si batté per un cambiamento politico del paese e per il riallineamento della Bulgaria con l'Occidente. Fece però "il grave errore" (naturalmente "grave errore" per i comunisti) di denunciare pubblicamente in parlamento il comportamento dei partigiani, che avevano intenzione di consegnare il paese ai russi.

Se non avesse fatto questo "passo falso", avrebbe potuto entrare trionfalmente nella nuova era che si apriva in Bulgaria con l'arrivo dell'Armata rossa. Aveva le carte in regola per diventare, alla fine della guerra, un personaggio famoso e riverito in tutto il mondo. Era stato l'unico politico di rango di un paese alleato con la Germania ad aver rotto il clima di omertà attorno al destino degli ebrei, costringendo con la sua azione il re ed il governo ad arrestare la macchina della deportazione.

Facendo fallire l'intesa con i tedeschi aveva dato vita all'unica vera resistenza nazionale contro il nazismo; anche se non aveva mai preso un fucile in mano per combatterli, era stato lui, paradossalmente, il loro più grande nemico, il più pericoloso partigiano di tutta la Bulgaria. Aveva personalmente combattuto con Hitler la battaglia decisiva e aveva vinto: gli ebrei erano ancora vivi. Nessun esercito al mondo, nessun capo di stato occidentale, nessun Papa, era stato in grado di infliggere al nazismo una sconfitta così pesante nella sua guerra senza quartiere contro gli ebrei. Solo in Danimarca era successo qualcosa di simile.

La sua presa di posizione contro i comunisti gli costò molto cara al momento dell'occupazione della Bulgaria da parte dell'Armata rossa. Fu processato con l'imputazione di essere antisemita e antisovietico. Nel corso del processo l'accusa arrivò ad insinuare che avesse salvato gli ebrei in cambio di denaro. Fu categoricamente smentita dagli ebrei giunti appositamente da Kjustendil per difenderlo.

La "Corte Popolare" era ugualmente intenzionata a condannarlo a morte, come fece con altri venti deputati che avevano firmato la sua lettera di protesta. Ci fu però un piccolo miracolo. Il suo difensore ebreo, Joseph Nissim Jasharov, estrasse il classico coniglio dal cilindro e ricordò alla corte che Peshev, nel 1936, quand'era ministro della giustizia, aveva salvato dalla condanna a morte Damjan Veltchev, il nuovo ministro della guerra, autore del golpe comunista attuato con l'arrivo dell'Armata rossa. Peshev ebbe così solo 15 anni di carcere e dopo un anno fu rilasciato. ll gulag, subito dopo, gli fu risparmiato, ma solo grazie all'intervento di un suo vicino di casa, responsabile della cellula comunista del quartiere, che Peshev aveva salvato a suo tempo dal licenziamento.

Dopo la guerra Peshev visse dimenticato da tutti, rinchiuso tra le quattro mura di casa: i comunisti gli avevano tolto anche la possibilità di esercitare una professione. Assistette così ad una vera e propria farsa. Mentre lui viveva in disgrazia e venti dei firmatari della lettera di protesta erano finiti davanti al plotone d'esecuzione, il partito comunista si autocelebrò come l'artefice del salvataggio degli ebrei bulgari. Partì persino la proposta di indicare per questo motivo la candidatura di Todor Zhivkov al premio Nobel per la pace.

A venticinque anni dalla sua scomparsa le nipoti di Peshev Kichka, Kaludka e Milka, e tutti coloro che si sentono vicini a questa figura emblematica, chiedono che finalmente venga riconosciuto il suo grande merito e che il suo nome sia posto tra i Giusti che si sono opposti all'Olocausto. Per questo si fanno promotori di una fondazione internazionale che promuova in Bulgaria, in Israele, in Italia, in Francia, negli Stati Uniti e nel resto del mondo il ricordo di Dimitar Peshev.

La sua storia può essere di esempio a quanti oggi si battono per il rispetto dei diritti umani e non accettano che in qualsiasi parte della terra vengano perseguitati uomini di etnie, religioni, credo differenti.

Peshev un giornò salvò gli ebrei, ma lo avrebbe fatto per chiunque fosse stato perseguitato. È questa l'eredità morale che ci ha lasciato e che può rendere la Memoria, come ha scritto Tzvetan Todorov, un grande filosofo bulgaro contemporaneo, un fatto vivo ed esemplare per le generazioni future.


Sofia, 20 febbraio 1998
 
Una scultura di Alberto De Braud    


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