Dimitar Peshev

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Articoli sul libro "L'uomo che fermò Hitler"


Reset  n. 51, novembre-dicembre 1998


Un uomo, 48.000 vite

di Olga Mattera


Due sono gli aspetti che colpiscono maggiormente, scorrendo questo bel libro: l'enorme lavoro di archivio e di documentazione da parte dello scrittore, e la capacità di queste pagine di suscitare interrogativi, di far pensare a noi stessi, alla nostra storia, al nostro paese di allora e di ora.

Si tratta della storia di Dimitar Peshev, bulgaro, che nella sua veste ufficiale di vicepresidente del parlamento filo nazista del suo paese blocca l'invio dei convogli che avrebbero portato l'intera comunità ebraica della Bulgaria ad Auschwitz. E una storia completamente diversa da quella di Schindler, di Perlasca, dei tanti altri eroi e "giusti" che hanno cercato di porre una piccola diga al fiume in piena della follia nazista, da soli, nel segreto rischiando la propria vita. Peshev infatti non è tra questi.

È lampante, fin dalle prime righe, l'importanza e la differenza che fa di questa storia una vicenda particolare: Peshev è quell'esemplare di uomo e di politico che noi tutti, fin da quando ci siamo avvicinati ai testi di storia, avremmo voluto che esistesse nell'Europa in guerra, soprattutto in Italia, e ancora oggi non ne giustifichiamo l'assenza, con un certo senso di esterrefatta incomprensione dell'animo umano. Perché Peshev agì dall'interno, perché Peshev non fece atti di sabotaggio, non nascose, non comprò: agì nei limiti delle sue facoltà istituzionali, usò le prerogative concesse alla sua carica, si avvalse dei mezzi che quel parlamento, per quanto autoritario, gli concedeva.

È facile giudicare a posteriori; detto questo, l'esistenza di un Peshev, così ben raccontata da Nissim, infrange tutto quel discorrere sull'"impossibilità" di agire, sotto il fascismo o il nazismo, in disaccordo con i "capi", sulla mancanza totale di alternativa e di scelta, sull'impossibilità di utilizzare la propria, veste ufficiale per combattere dall'interno e per le vie formali per lo meno alcune deviazioni, alcune "macchie"; macchie come quella della deportazione degli ebrei, che, Come scrisse Peshev nella sua lettera al parlamento, sottoscritta da 40 deputati, era "....non solo un atto criminale contro gli esseri umani, ma anche una ferita morale inferta alla Bulgaria, un'indegna macchia d'infamia sul suo onore". Peshev pagò il tributo alla sua coscienza perdendo ogni carica politica, fu esautorato personalmente dal re, e sotto i comunisti, cadde neIla peggiore delle punizioni: l'oblio totale e la negazione del suo atto da parte di tutti.

Chi era quest'uomo che, usando la sua carica istituzionale, risvegliò le coscienze del Parlamento, e finanche del re, sopite dal filonazismo? Peshev era innanzitutto un nazionalista e un patriota, ma anche un amante della democrazia, delle buone maniere e della cultura, che vide orribilmente calpestate dalle varie brevi esperienze autoritarie succedutesi in Bulgaria tra le due guerre, soprattutto da quella del comunista, quasi illetterato, Stambolijski "il classico leader che poteva imporre le sue idee radicali solo ad un paese umiliato dalla sconfitta"; era, poi, un nazista pieno e convinto, un figlio del suo tempo e di quel sapore di revanscismo e di grande insoddisfazione che regnava in mezza Europa dopo la firma dei trattati di pace, un uomo che vide nell'autoritarismo dei leader europei, soprattutto di Hitler, la salvezza morale, la possibilità di liberare la Bulgaria dalla coltre vischiosa del malgoverno, della corruzione, dell'illegalità, del degrado dei principi democratici. Quando la Bulgaria firmò il patto tripartito con la Germania nazista, con il quale Hitler prometteva la Macedonia, la Tracia e la Dobrugia, quelle terre che i bulgari consideravano ingiuste mutilazioni, Peshev, con il suo nazionalismo fanatico, sentì che finalmente una giustizia storica e un nuovo ordine avrebbero regnato in Europa e nel suo paese. Svolse un ruolo di spicco all'interno del governo filo nazista bulgaro, fino a diventare vicepresidente del parlamento. Sostenne tutte le legislazioni di emergenza, comprese le leggi antisemite. Insomma, un uomo che, come spiega in modo assai sottile Nissim, si rivolge all'autoritarismo perché disgustato dal degrado politico del proprio paese, e che non vede, fino quasi alla fine, le frange vergognose del regime da lui supportato.

Eppure, quando il suo amico Baruch, dalla città in cui aveva studiato ed era stato eletto, Kjustendil, gli disse, nel marzo del '43, che nelle stazioni di tutta la Bulgaria erano pronti i treni che avrebbero portato via tutti gli ebrei del paese, Peshev ebbe un'illuminazione: capì non solo che si trattava di qualcosa di enorme, di sbagliato, di terribilmente snaturato, ma soprattutto che a pagarne, più della sua stessa coscienza, sarebbe stata la coscienza del paese che amava, della sua patria, della sua Bulgaria.

Accadde "il miracolo": riuscì a mobilitare parte del Parlamento, risvegliando nei deputati quella che Hannah Arendt chiama la zona grigia della coscienza, che viene messa a tacere attraverso l'uso organizzato della menzogna, volto a togliere la voce ai sensi di colpa; riuscì a ridestare anche i sensi di colpa del re Boris, figura indecisa e debole; riuscì addirittura, come conseguenza della sua aperta protesta in Parlamento, di fronte al primo ministro e al re, a mobilitare, anche in questo caso in via ufficiale, il metropolita della cristianità ortodossa di Sofia, Stefan, che approfittando della folla accorsa per la festa dei santi Cirillo e Metodio levò a gran voce le sue proteste contro la persecuzione dei cittadini bulgari ebrei, ammonendo il re in persona a badare al giudizio di Dio.
E così la Bulgaria fu l'unico paese nell'area fascio-nazista a non macchiarsi dell'onta dell'olocausto. E, cosa più importante, l'olocausto fu bloccato attraverso le vie istituzionali.

Come non evitare allora l'insorgere di certe domande, pur nella coscienza della sterilità dei "ma" e dei "se" nell'analisi storica: perché nessuno tra i nostri deputati ha avuto l'ardire di guardare dietro alle menzogne tedesche (la più usata, quella che dalle lettere che gli ebrei deportati in Polonia spedivano ai loro parenti e amici si arguiva che in quei campi di lavoro si trovavano bene, e che nulla di male accadeva loro); perché l'Italia, che pure non è un paese antisemita, ha dovuto accontentarsi di atti di eroismo isolati e nascosti? Era davvero impossibile agire attraverso le vie istituzionali? E cosa sarebbe accaduto se il Papa, in una delle sue omelie a Piazza San Pietro, avesse inveito, come fece il metropolita Stefan, contro quell'atrocità che macchierà l'Europa per sempre? È lecito ignorare, alcuni valori durante uno stato di grande, emergenza, o in virtù di un grande ideale? Non si può fare a meno, leggendo questo libro, di porsi domande di questo genere: nell'impossibilità di rivivere la storia, ci serviranno forse per vivere meglio il presente.

 
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  Nessuno ringraziò Peshev, per aver salvato la comunità ebraica della Bulgaria, 48.000 persone. Il regime comunista, dopo averlo processato e condannato a morte (non senza difficoltà: dimostrare che era stato, mosso, nel suo operare, solo dal senso di umanità, e non per qualche tornaconto personale, fu più difficile del previsto), lo graziò solo per il fatto che, molti anni prima, aveva salvato un comunista dalla sentenza capitale ma lo condannò al silenzio e all'oblio. Era un fascista, colpevole di aver compiuto un miracolo che un fascista non poteva permettersi di compiere: i comunisti si erano presi il merito della salvezza degli ebrei in Bulgaria, e la stessa esistenza di Peshev era un pericolo verso l'organizzazione della nuova menzogna collettiva organizzata, stavolta di altro colore. Gli confiscarono carte e libri e lo lasciarono languire con i propri ricordi, privato anche della possibilità di lavorare, quasi fino alla morte. Peshev avrebbe potuto, una volta cacciato dal Parlamento, avvicinarsi ai comunisti, passare per repubblicano, "salvarsi", diventare addirittura un eroe comunista. Ma mantenne quel grande senso di coerenza che, attraverso il libro di Nissim appare chiaro, lo accompagnò per tutto il corso della vita e gli fece sempre distinguere, il bene dal male, e il valore superiore della dignità umana, anche nelle contingenze di eccezionalità.

Povero Peshev, con il suo amore verso l'ordine e l'autorità, il suo rispetto per le forme e le gerarchie, la sua capacità di indipendenza e di discernimento: la sua vita passata praticamente solo attraverso regimi totalitari. Nella sua ricerca verso un modo di far politica corretto, morale, democratico, pulito, fu vittima di quel destino che a volte accompagna persone come lui: non riuscire a trovare "il tempo giusto in cui vivere", e vivendo quindi, quasi sempre, da incompreso.


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